domenica 22 luglio 2012

La guerra della Siria (6)

Siria. La diaspora dei cristiani

La comunità, 2,5 milioni di persone, è sempre stata protetta dagli Assad. Ma ora che l’integralismo islamico si rafforza la fuga è iniziata


di Giovanni Porzio


La guerra sembra lontana da Maalula. Un’autobomba è appena esplosa nel centro di Damasco, all’ospedale militare sono allineate le bare dei 52 soldati caduti negli ultimi scontri alla periferia della città e nelle strade del sobborgo di Duma si combatte a colpi di mortai e di lanciarazzi. Ma nell’antico villaggio cristiano, arrampicato su una glabra collina di pietre color sabbia a una quarantina di chilometri dalla capitale, le 15 monache greco-ortodosse del monastero di Santa Tecla conducono la vita di sempre: pregano in aramaico, l’idioma di Gesù, nelle grotte del convento; riempiono giare di profumata composta di albicocche; distribuiscono olio e acqua santa ai rari pellegrini.
A rompere l’incantesimo è Belajia Sayaf, la madre superiora, che non ha peli sulla lingua. Ed è un fiume in piena: "Oh sì, Santa Tecla fa molti miracoli: guarisce gli ammalati. Ma ora ci vorrebbe un miracolo per fermare questa guerra insensata! L’Occidente arma la mano dei fondamentalisti islamici decisi a distruggere secoli di pacifica convivenza tra le religioni e le minoranze siriane. Ci impone sanzioni che colpiscono la povera gente: non possiamo più esportare i nostri prodotti agricoli e i prezzi dei generi di prima necessità sono saliti alle stelle. I cristiani se ne vanno, a migliaia. Hanno paura. Non vogliono tornare nelle catacombe".
Era già accaduto nel vicino Iraq dopo la cacciata di Saddam Hussein nel 2003, con l’esodo di massa di oltre 300 mila fedeli costretti a espatriare. E ora lo spettro della pulizia etnica e della persecuzione è diventato l’incubo dei 2,5 milioni di cristiani di Siria, il 10 per cento della popolazione. La dinastia degli Assad, espressione della setta musulmana alawita, ha protetto le minoranze religiose ottenendo in cambio un appoggio non del tutto convinto (numerosi cristiani sono finiti nelle prigioni di Damasco) e tuttavia utile a sostenere la stabilità e la continuità del regime. Ma da quando l’effimera primavera siriana è stata soffocata dai tank di Damasco e dai kalashnikov di un’opposizione sempre più egemonizzata dai "takfir", gli integralisti islamici armati e finanziati dalle monarchie sunnite del Golfo, la rivolta ha cominciato inesorabilmente a scivolare nel vortice di una guerra civile nel quale i cristiani rischiano di essere i primi a precipitare.
Gli sfollati raccontano che a Hama quasi tutti i 20 mila seguaci di Cristo sono stati espulsi. A Homs i miliziani qaedisti della brigata Faruq hanno costretto alla fuga la maggior parte dei 100 mila cristiani e hanno occupato le loro case nei quartieri di Hamidiya e Bustan al-Diwan: nella città vecchia non ne restano più di 120 ed è rimasto un solo sacerdote. Anche Paolo Dall’Oglio, il gesuita fondatore della comunità monastica di Mar Musa, ha dovuto abbandonare dopo trent’anni il romitaggio su un colle a nord di Damasco. Mentre laComunità di Sant’Egidio ha avviato un programma di assistenza ai profughi che si riversano nella capitale.
"Abbiamo cercato di non farci coinvolgere nel conflitto" dice a Panorama la deputata cristiana Maria Saadeh, eletta due mesi fa come indipendente nel parlamento con 104 mila preferenze. "Ma non è stato possibile. Molti cristiani emigrano per mettere in salvo la famiglia e i figli. Temono l’avvento di un regime islamico intollerante: lafine di un tessuto multireligioso che fa parte della nostra storia e che il governo laico siriano ha saputo salvaguardare. Abbiamo bisogno di più riforme, più democrazia, più lavoro, più istruzione. Non di una guerra fratricida".
Le prospettive non sono incoraggianti: il piano di Kofi Annan si è insabbiato, gli osservatori dell’Onu hanno sospeso le ispezioni e bivaccano al Dama Rose Hotel in attesa di istruzioni, una più incisiva azione diplomatica è fieramente osteggiata da Mosca, l’opposizione è divisa e priva di una credibile leadership politica, all’interno la società civile è silente e alla Casa Bianca si pensa soprattutto alle elezioni presidenziali del prossimo novembre. Il tempo, nonostante le defezioni nelle forze armate e il pesante bilancio di vittime nei ranghi dell’esercito, sembra ancora giocare a favore di Bashar.
"Qui non c’è più posto per me" lamenta George, studente di architettura, seduto al fresco della notte in un giardino recintato da capitelli romani nel vecchio quartiere cristiano di Bab Touma. "La mia generazione è fottuta. Abbiamo creduto nel sogno della libertà e delle riforme, volevamo una vita normale, e ci troviamo nel mezzo di una guerra che sta distruggendo il nostro futuro. Nei primi mesi delle proteste un compromesso era forse possibile, ora è tardi per una soluzione politica. La crisi è fuori controllo, non è più nelle nostre mani, e io ho deciso di andarmene: in Libano, in Europa, ovunque".
Non tutti hanno l’opportunità di espatriare. Yussuf Hawa, classe 1957, cristiano di Homs, aveva una buona posizione. Ingegnere geologo, era il supervisore delle trivellazioni per il colosso petrolifero Schlumberger nella regione di Deir Azzur: ottimo stipendio, auto di servizio, una quarantina di dipendenti siriani e americani. "Ho perso tutto" racconta in lacrime nello studiolo di padre Elias Zahlaoui, ottantenne sacerdote della chiesa cattolica di Nostra Signora di Damasco. "Abitavo nel quartiere di Hamidiya. Sparavano con i cannoni e sui tetti c’erano i cecchini con i lanciarazzi. Per un mese io, mia moglie e le due figlie siamo vissuti nella tromba delle scale, per ripararci dai proiettili. Avevamo solo un po’ di pane. Poi la nostra casa è stata colpita e siamo scappati qui a Damasco. Ieri ho fatto 10 chilometri a piedi per venire qui, dall’abuna Elias, a chiedere aiuto. Mi sento umiliato, non ho neppure i soldi per dare da mangiare alla mia famiglia".
Padre Elias è convinto che la libanizzazione della Siria in province su basi etniche e religiose sia l’obiettivo strategico convergente di Israele, della Turchia e dell’Arabia Saudita. Scrive lettere appassionate a Barack Obama, al Papa e a tutti i grandi della Terra per segnalare i rischi di una escalation militare in Medio Oriente e promuovere il dialogo tra le diverse culture. Nessuno gli ha mai risposto. E allora si dedica con tutta l’anima al coro giovanile interreligioso che ogni pomeriggio si esercita nella sua parrocchia. Anche se neppure lui può dire per quanto tempo ancora i bambini cristiani e musulmani canteranno insieme nella chiesa di Nostra Signora di Damasco.



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