venerdì 30 agosto 2013

Jan Vermeer, la musica dell’anima nella pittura del silenzio

Jan Vermeer, la musica dell’anima nella pittura del silenzio
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Michele Lasala

Il primo ad aver intuito la originalità e la particolarità della pittura di Jan Vermeer (Delft, 1632 – ivi, 1675) dopo un oblio durato circa due secoli e mezzo dalla morte del pittore, fu lo storico olandese Johan Huizinga, che, in una sua opera del 1932, Hollandische Kultur des siebenzehnten Jahrhunderts, afferma: «Con Hals è possibile cavarsela usando il termine “realismo”, ma la sua insensatezza risalta quando da Hals si passa a Vermeer […]. Vermeer non ha dipinto apparentemente che l’aspetto esteriore della vita quotidiana […]. In tutto ciò che dipinge Vermeer, aleggia a un tempo un’atmosfera di ricordi d’infanzia, una calma di sogno, un’immobilità completa e una chiarezza elegiaca, che è troppo fine per essere chiamata malinconia. Realismo? Vermeer ci porta lontano dalla grossolana e nuda realtà quotidiana».
UNA PITTURA DI SOGNO – Il realismo di Franz Hals, altro interessante pittore del Seicento olandese e che Huizinga qui mette a confronto col maestro di Delft, è come se lentamente si dissolvesse nel pulviscolo cristallino della chiara luce che sovrana regna nelle opere di Vermeer, trasfigurandosi via via in una dimensione completamente altra, assoluta, fuori dal tempo: quella del sogno. La pittura di Vermeer ci porta veramente lontano dalla nuda realtà del quotidiano, proiettandoci negli abissi più profondi della autenticità e dell’anima degli uomini. Un’anima che comunica non già con la parola, ma col silenzio della solitudine.
CALMA, SILENZIO E INTIMITA’ – Ed ecco La merlettaia (1669), una giovane ragazza intenta a ricamare al tavolo di lavoro; alle sue spalle una parete nuda e disadorna che lascia indovinare una stanza altrettanto semplice simile a quella di una novizia in un monastero. L’atmosfera di estrema sacralità che in questo quadro si avverte, è suggerita anche dal libro chiuso che la giovane tiene accanto a sé, probabilmente un libro d’ore o la Bibbia. Ed ecco ancora la Donna in azzurro che legge una lettera (1663 ca.), opera oggi conservata al Rijksmuseum di Amsterdam, in cui si vede una ragazza, forse incinta, assorta nella lettura di una lettera nella calma e nel silenzio della sua stanza.  Davanti a sè si intuisce una finestra da cui filtra una luce diafana che svela al mondo l’intimità domestica di questa giovane amante. La lettera che sta leggendo potrebbe essere quella del suo amato, che le scrive da terre lontane. Ed ecco L’Astronomo (1668), opera conservata al Louvre e una delle opere più note di Vermeer. Lo scienziato è all’interno del suo studio, al tavolo di lavoro e circondato dagli strumenti di cui si serve: libri, un compasso, un astrolabio, un grafico. L’astronomo si alza leggermente dalla sedia e con la mano destra gira la sfera celeste alla ricerca evidentemente d’una costellazione, di un astro, di un mondo inesplorato.
LA MUSICA, VOCE DELL’ANIMA – Nelle opere di Vermeer, alle volte il silenzio della intimità può essere sublimato da qualche nota, dal suono dolce di un violino, da quello di una spinetta, da quello delicato di un liuto, come dimostrano dipinti quali Gentiluomo e dama alla spinetta (1662), Suonatrice di liuto(1664), Concerto a tre (1665), Fanciulla con flauto (1665-1670), Suonatrice di chitarra (1672). Tutte opere in cui la musica non spezza l’incanto della solitudine: essa piuttosto ci fa sentire, dei protagonisti, la voce dell’anima, la melodia dei sentimenti; ci fa udire il suono delle loro speranze e della loro semplice esistenza. È un mezzo che dà espressione al volto nascosto e segreto dell’interiorità.
LA METAFISICA DI VERMEER – La pittura raffinata e analitica di Jan Vermeer, in sostanza, a differenza di quella degli altri pittori suoi contemporanei, come quella di Pieter de Hooch, Frans van Miers, Gabriel Metsu, Gerard  ter Borch – pittori che pure avevano dipinto soggetti simili a quelli di Vermeer (nell’Olanda del Seicento erano molto richiesti quadri di genere, raffiguranti suonatori, concerti, osterie, donne intente nel loro lavoro) –  non è affatto una pittura della realtà, del quotidiano, ma è piuttosto una pittura del sogno, della sospensione temporale: è una pittura, appunto, dell’interiorità. Si può dire che essa sia una pittura “metafisica”. Prima ancora della esperienza artistica di Giorgio De Chirico, Giorgio Morandi e Carlo Carrà.
IL DUBBIO DELLA REALTA’ – Vermeer, come scrive giustamente Lorenza Trucchi (Vermeer e l’arbitrio del colore, 1966), «non badava tanto a descrivere il reale quanto a fissarlo nella sua essenza pittorica. Il “rumore barocco” con le pompe trionfanti e le prime inquiete tentazioni, non arriva all’orecchio dell’assorto pittore di Delft; egli pare vivere in una religiosa atmosfera ancora castamente medioevale e, tuttavia, su questa assorta quiete aleggia il misetero: il silenzioso mistero della morte. Tutta l’arte di Vermeer altro non è che questo bloccare l’attimo, questo fare di ogni cosa, anche la più sanamente concreta e banalmente viva, di ogni precario e mutevole spettacolo quotidiano. […] Vermeer non è dunque un classico, è, anzi, uno dei pittori più moderni del Seicento, proprio per quel suo mistero, per quel sottile dubbio sulla realtà, occultato sotto una assoluta assenza di enfasi, sotto una ossessiva precisione di dettagli oggettivi».
LA MOSTRA – È aperta a Londra, alla National Gallery, fino all’8 settembre, la mostra Vermeer and Music. The art of love and leisure. Un’esposizione che mette a confronto l’opera di Vermeer con quella di alcuni pittori suoi contemporanei e con alcuni esempi di strumenti del tempo. In mostra quattro dipinti del maestro di Delft: Donna in piedi al virginaleDonna seduta al virginale, la Suonatrice di chitarra, laLezione di musica. Tra gli artisti presenti in mostra: Gerrit Dou, Jan Miense Molenaer, Godtfried Shalcken, Pieter de Hooch, Gabriel Metsu, Gerard ter Borch.
Jan Vermeer, "Suonatrice di chitarra" (1672, ca.), Londra, Kenwood, Iveagh Bequest.
Jan Vermeer, “Suonatrice di chitarra” (1672, ca.), Londra, Kenwood, Iveagh Bequest.

La metafisica di De Chirico. Il mistero e l’inquietudine nella pittura dell’enigma


La metafisica di De Chirico. Il mistero e l’inquietudine nella pittura dell’enigma
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di Michele Lasala
L’elemento dominante nelle opere metafisiche di Giorgio De Chirico è con ogni evidenza il mistero, e questo perché in esse la realtà si trasfigura emblematicamente nel suo opposto, lasciando l’uomo in uno stato di dubbio e di sospensione. Gli oggetti di sempre, gli oggetti della quotidianità perdono improvvisamente ogni loro valenza; e conseguentemente la perdita di senso del mondo lascia il posto all’oscuro abisso dell’inquietudine. Le cose rappresentate nei quadri di De Chirico non hanno infatti nessun significato, non esistono per dire qualcosa, non comunicano nulla al di là della loro angosciante insensatezza. Ed è proprio questa, l’insensatezza, la chiave ermeneutica per poter meglio comprendere tutta la ricerca metafisica dechirichiana, un elemento che affonda evidentemente le sue radici nella filosofia umana, troppo umana di Friedrich Nietzsche, lo “scriba del caos”. De Chirico ad un certo punto confesserà: «Fu in quell’occasione che, durante un viaggio che feci a Roma in ottobre, dopo aver letto le opere di Nietzsche, mi accorsi che c’è una quantità di cose strane, sconosciute, solitarie, che possono essere tradotte in pittura. Riflettei a lungo. Così ho cominciato ad avere le prime rivelazioni. Disegnavo meno, avevo anzi un po’ dimenticato, ma ogni volta che lo facevo mi sentivo spinto da una necessità. Capii allora certe sensazioni vaghe che prima non mi spiegavo. Il linguaggio che a volte le cose hanno in questo mondo; le stagioni dell’anno e le ore del giorno. Le epoche della storia, anche quelle. – La preistoria, le rivoluzioni del pensiero attraverso i secoli, le epoche classiche, il medioevo, i tempi moderni, tutto mi appariva più strano e più lontano. Non c’erano più soggetti nella mia immaginazione, le mie composizioni non avevano alcun senso e soprattutto alcun senso comune, sono calme». E poi, come fosse veramente un filosofo contemporaneo sulla scia del pensiero nichilista, scrive: «Ci vuole soprattutto una grande sensibilità. Rappresentarsi tutte le cose del mondo come enigmi, non soltanto le grandi domande che ci si è sempre posti – perché il mondo è stato creato, perché nasciamo, viviamo e moriamo – in quanto forse come ho già detto in tutto questo non c’è alcuna ragione».
LA GRANDE RIVELAZIONE – De Chirico scrive queste righe nel 1913, quando è ancora a Parigi, e racconta del suo viaggio romano compiuto nel 1906, lo stesso anno in cui lascia la patria, la Grecia, e arriva in Italia, dove visiterà inoltre Milano e poi Venezia. Ma è Roma la città della grande “rivelazione”, la città in cui il pittore avverte quella strana ed enigmatica atmosfera che modificherà enormemente il suo stato d’animo rispetto alla realtà, a tal punto che egli chiamerà questa singolare esperienza col termine tedesco Stimmung, direttamente preso in prestito dal lessico romantico. E come per un poeta o filosofo romantico, Roma è per Giorgio De Chirico la città del sogno, la città in cui tutto appare sotto una luce diversa, rivelatrice, surreale. Per De Chirico la realtà deve essere guardata con occhi diversi, deve essere percepita con una sensibilità nuova. Non c’è nulla da comprendere, capire, per De Chirico. Tutto rappresenta un enigma, una domanda; e l’uomo, in questa nuova dimensione, si accorge tragicamente di esser sospeso nel vuoto di una realtà priva di fondamento. Lo sgretolamento dell’essere lascia spazio al volto amorfo e inespressivo del nulla, che riflette le sembianze del volto inquieto dell’uomo contemporaneo. È il velo di Maya che è stato finalmente strappato dagli occhi dell’uomo illuso.
L’ENIGMA DEL TEMPO – È proprio a Roma che Giorgio De Chirico concepisce la pittura metafisica, non intendendola ancora però come avanguardia, come movimento artistico, ma come tentativo del tutto individuale di rappresentare le cose in modo diverso, nuovo. Subito dopo infatti, nel 1910, comincia a dipingere i primi quadri metafisici. A questo stesso anno risale un quadro come L’énigme de l’heure (L’enigma dell’ora), opera oggi conservata a Milano nella Collezione Mattioli. Qui tutto è fermo, persino le lancette dell’orologio che segnano le 14:54 sembrano essersi fermate. A rendere più inquietante l’atmosfera di fissità e di attesa sono anche le lunghe ombre che si addensano sulla piazza antistante l’edificio porticato, probabilmente una stazione ferroviaria. La presenza dell’uomo vestito di bianco inoltre davanti all’imponente edificio rafforza ancora di più il senso di mistero che permea tutta la scena: l’uomo è come se fosse in attesa di qualcosa che mai accadrà, perché il tempo pare essersi emblematicamente fossilizzato, bloccandosi per sempre in quell’ora, in quel minuto. Un attimo divenuto eternità. Due anni più tardi De Chirico dipinge La nostalgia dell’infinito (New York, The Museum of Modern Art): è il quadro che inaugura la serie delle “torri”. Una grande torre bianca piramidale infatti campeggia in quest’opera, sovrastando con la sua imponenza le due figure umane che passeggiano ai suoi piedi. È una cattedrale moderna, senza più spirito, senza più Dio, ma comunque capace di ridestare nell’uomo il senso dell’infinito in virtù della sua forma che si eleva potentemente verso il cielo, come a suggerire una dimensione altra rispetto a quella finita e mondana.
LA METAFISICA – Nel 1915 l’Italia entra in guerra e De Chirico è chiamato alle armi; verrà destinato a Ferrara, dove incontrerà Filippo de Pisis e Corrado Govoni. L’anno dopo però si fa ricoverare all’ospedale militare della città estense “Villa del Seminario”, e in questa circostanza avviene l’incontro con Carlo Carrà. Nasce ufficialmente la Metafisica. Il manifesto pittorico di questa nuova avanguardia italiana, una delle più importanti del secolo XX, è Le Muse inquietanti (Milano, Collezione Mattioli). Sullo sfondo è riconoscibile il castello di Ferrara, in primo piano invece due misteriose figure, a metà strada tra i manichini di una sartoria e le statue di un edificio classico greco. Ai loro piedi sono disposti degli oggetti che rimandano ai giochi dell’infanzia, di quell’età che perdura solo nella nostra memoria e che disturba tacitamente la nostra coscienza, angosciando il nostro io.
UNA PITTURA INTERIORE E CEREBRALE – Le muse di De Chirico inquietano perché non ispirano più nulla, né arte, né musica, né poesia. Sono mute nella loro insensatezza. Come muto e insensato è il mondo che le circonda. Le risposte alla nostra esistenza le dobbiamo cercare allora solo dentro di noi, nel sottosuolo della nostra coscienza, nella nostra memoria, nella nostra interiorità. E’solo da qui che può nascere una nuova poesia, una nuova arte, e un rinnovato senso della realtà;  non più guardando fuori e al di là degli orizzonti del nostro io. E la pittura diventa così “intérieure” e “cérébrale”, così come ebbe a scrivere lucidamente in riferimento proprio alla pittura metafisica ed enigmatica di De Chirico, il poeta francese Guillaume Apollinaire. Interiore e cerebrale è la pittura metafisica, e non narrativa. De Chirico in effetti in tutta la stagione metafisica non ha raccontato nulla, non ha detto nulla. Non ha narrato storie, non ha descritto ambienti o situazioni, non ha rappresentato scene di vita quotidiana. Ha solo lasciato che il mondo si mostrasse per quello che è: un mistero tra l’essere e il nulla.
LE MOSTRE – Giorgio De Chirico e il ritratto, Montepulciano (Siena), Fortezza poliziana, dall’ 8 giogno al 30 settembre; Giorgio de Chirico. Mistero e poesia, Otranto (Lecce), Castello aragonese, dall’ 8 giugno al 29 settembre.
Giorgio De Chirico, "Le Muse inquietanti", 1916, Milano, Collezione Mattioli
Giorgio De Chirico, “Le Muse inquietanti”, 1916, Milano, Collezione Mattioli

giovedì 15 agosto 2013


Due doverose chiarificazioni in merito al video "Bruttezze d'Italia. Grand Tour" in risposta a un commento alquanto provocatorio

Michele Lasala

1) In questo video ho incluso tra le bruttezze d'Italia non certo l’Ara Pacis, che è uno degli esempi più belli di architettura e scultura dell’arte romana, ma piuttosto la struttura architettonica che la circonda, la quale avrebbe – secondo le intenzioni dell’architetto Richard Meier – la funzione di preservare e proteggere il monumento romano da chissà quali pericoli esterni o atmosferici. La teca avrebbe dunque la funzione di sala museale. Un’idea bizzarra oltre che paradossale, se si pensa al fatto che Roma è di per sé un museo, non certo imprigionato all’interno di asettiche parteti dalle finestre di vetro, ma un museo en plein air. Secondo questa concezione, quindi, si dovrebbero realizzare tante teche quanti sono i monumenti romani. Ma si potrebbe ancora, perché no, estendere utopisticamente il modello dell’Ara Pacis a tutti i monumenti di Italia, coprendo così di cemento tutta la bellezza di cui siamo in possesso. In verità Meier ha agito – secondo il mio modesto modo di vedere – in base all’assurdo principio secondo cui l’architetto contemporaneo deve essere libero di esprimere la sua, chiamiamola così, arte, o semplicemente idea estetica, ovunque; anche in luoghi dove non c’è bisogno effettivamente di interventi architettonici aggiuntivi o integrativi. L’architetto contemporaneo, in ossequio al folle principio della modernità, avrebbe così la piena libertà di disporre anche dei luoghi storici per imporre il suo cattivo gusto estetico attraverso la realizzazione di inutili strutture, danneggiando l’estetica e l’identità dei luoghi stessi. E con esse la memoria della nostra civiltà. Purtroppo, dopo l’esperienza dell’arte Dada, e l’esaltazione del banale quale nuovo oggetto estetico o artistico che vede impegnati artisti come Marcel Duchamp, Max Ernst, Francis Picabia, Man Ray, e più tardi Piero Manzoni con il neodadaismo, nella direzione sempre più decisa di rompere col passato e con la tradizione artistica, il nostro gusto estetico si è formato sull’idea del brutto e non più del bello, a tal punto che paradossalmente nell’arte moderna e contemporanea il brutto viene considerato bello. E viceversa. Piero Manzoni con la sua “merda d’artista” non soltanto ha espresso una idea di mercificazione e di oggetto di consumo che soggiace alla concezione stessa dell’opera d’arte contemporanea, ma ha voluto soprattutto far capire come il nome dell’artista sia più importante della sua opera, a tal punto che anche una scatola di merda può diventare a tutti gli effetti un’opera d’arte, dal momento che reca la firma di “Piero Manzoni” o comunque di qualche altro artista. Ecco, questo è quello che oggi accade, il nome vale più dell’opera realizzata, e quello dell’architetto Meier è – pare di capire – un marchio di qualità. 

2) Il teatro degli Arcimboldi fu costruito tempo fa (negli anni tra il ’97 e il 2000) per sostituire il Teatro alla Scala. E questo a causa dei lavori di restyling che in quegli anni si stavano facendo all’interno del più noto teatro milanese. Col passare del tempo l’Arcimboldi ha assunto sempre più un ruolo di rilievo, tanto da essere un punto di riferimento per molti artisti e amanti della musica. Ma al di là di questo, ciò che colpisce è la architettura in sé. E’ un inno al cattivo gusto che offende non solo la città di Milano (già di per sé deturpata e violata da altri nomi illustri dell’architettura contemporanea) ma anche la sensibilità di quanti vorrebbero vedere una bella architettura per un luogo destinato ad accogliere l’arte e la musica. Certamente Vittorio Gregotti è un ottimo architetto, ha curato nei minimi dettagli l’acustica. Su questo non c’è dubbio. Ma perché rinunciare alla bellezza o alle belle forme? Perché rinunciare all’idea di poter armonizzare bellezza e funzionalità? Gli architetti contemporanei diano uno sguardo al passato e prendano esempio da Filippo Brunelleschi, da Leon Battista Alberti o da Donato Bramante. E non si facciano prendere troppo dalla euforia di poter giocare liberamente con le forme e di creare mostri architettonici in vetro, metallo e cemento. Siano più rispettosi dei luoghi. E soprattutto siano più sensibili alla memoria e alla storia della nostra civiltà.



Vincent Van Gogh. La sofferenza e la solitudine tra cieli notturni e fiori di lillà Decrease Font Size Increase Font Size Text Size Stam...