martedì 31 luglio 2012

La guerra della Siria (13)


Chi sono i veri responsabili degli omicidi in Siria?
di Michele Lasala

A giudicare dai titoli dei giornali di questi ultimi giorni, pare che la situazione politica della Siria sia abbastanza complessa, oltre che delicata. È difficile fare una analisi dettagliata di quanto sta accadendo in questa terra, martoriata e allo stesso tempo umiliata  dalle carneficine quotidiane; è difficile esprimere un giudizio adeguato, seppur di carattere morale, sul ruolo politico di ogni singola figura che dall’alto manipola le menti di chi effettivamente compie atti criminosi. Chi è il vero responsabile degli assassinii, chi dovrà rispondere dell’accusa di omicidio? Assad è uno dei responsabili o è un dittatore che, in quanto dittatore, svolge un ruolo politico per cui vede la violenza come l’unico mezzo efficace per reprimere i rivoltosi?
E poi, noi tutti siamo responsabili davanti a questi massacri oppure dobbiamo considerarci semplicemente attenti e sensibili lettori di giornali?
È curioso come Benedetto XVI, proprio in riferimento alla situazione politica della Siria, lanci un pressante appello durante l’Angelus: «si ponga fine a ogni violenza e spargimento di sangue» e «non venga risparmiato alcuno sforzo nella ricerca della pace, anche da parte della comunità internazionale» con «dialogo e riconciliazione» per «un'adeguata soluzione politica del conflitto». Non si può non condividere un pensiero come questo, ma è altrettanto vero che il Papa in questi giorni, mentre in Siria muore gente, muoiono cristiani, è a Castelgandolfo, nella sua residenza estiva. Certo, il Papa non può andare a combattere, Benedetto XVI non è Giulio II. Perciò mi chiedo come sia possibile risolvere quella situazione. Sono sufficienti le parole del pontefice? Io temo proprio di no.
Di chi è la responsabilità quindi? Hanna Arendt, nel saggio Colpa organizzata e responsabilità universale, ad un certo punto dice, parlando delle responsabilità dello sterminio degli ebrei: «A ben vedere, quando tutti sono colpevoli nessuno può essere giudicato, poiché quella colpa non è congiunta nemmeno alla mera apparenza, la mera parvenza di responsabilità. Fintanto che la punizione rappresenterà un diritto del criminale – e questo modello è stato per più di duemila anni il fondamento del senso della giustizia e del diritto dell’uomo occidentale – la colpa implicherà la coscienza della colpa e la punizione la certezza che il criminale una persona responsabile».


La guerra della Siria (12)


Siria, non chiamatela rivoluzione...
di Marcello Foa

A guidarmi è l’istinto dell’inviato, che tante ne ha viste e con il passare degli anni è diventato sospettoso, ma le stragi in Siria mi convincono sempre meno. A leggere i titoli sui giornali e sui siti internet, si ha l’impressione che un’eroica minoranza stia resistendo da mesi alla repressione dell’esercito di Assad. E’ una rivoluzione del popolo, del cuore, dei giusti contro gli ingiusti. E noi non possiamo che stare con questo manipolo di straordinari, commoventi rivoltosi. Se fosse davvero così, io non avrei dubbi, però l’esperienza e la logica suggeriscono una lettura diversa o perlomeno maggior cautela.
In circostanze del genere, quando un esercito usa i carri armati e spara sulla folla, la rivolta di piazza finisce istantaneamente. Alcune volte mi è capitato di fuggire sotto il sibilare dei proiettili, ho visto case distrutte a cannonate :  la popolazione civile, per quanto arrabbiata, ripiega impaurita.
In Siria, invece, starebbe resistendo da mesi e le cannonate non basterebbero a incrinarne la resistenza. I conti non tornano, infatti quella in corso, più che una rivolta di popolo, sembra sempre di più una guerra civile alimentata da bande armate, composte verosimilmente da mercenari e guidati dai servizi segreti.

La rivoluzione è l’alibi è la cornice mediatica, ma la situazione, se analizzata con lucidità ed esperienza, appare ben più sofisticata e ruoli e responsabilità per nulla chiari. Chi sta combattendo contro chi ? Assad, che è un dittatore, è nel mirino di Usa, Europa e Israele, questo è evidente ; ma viene difeso a livello diplomatico dai cinesi e dai russi e, sul terreno, dagli iraniani che vedono in lui uno dei pochi alleati e fanno di tutto per tenerlo al potere.
Quella a cui, da lontano, assistiamo, è una guerra sporchissima, in cui i carnefici non sono sempre quelli indicati in prima battuta. La strage avvenuta qualche settimana fa a Hula, le cui immagini vengono ripetute in continuazione, non sarebbe stata compiuta dall’esercito di Assad, come scritto da tutti i media, ma da ribelli sunniti armati; infatti la maggior parte delle vittime, come ha scoperto la Frankfurter Allgemeine Zeitung, erano soprattutto alawite ovvero appartenevano ai clan etnici dello stesso Assad.E siccome è inimmaginabile che Assad abbia fatto fuori i propri sostenitori permettendo che i media internazionali gliene addossassero la colpa, lo scoop del giornale tedesco spalanca la porta a un’altra verità: a uccidere sono stati i rivoltosi ma la responsabilità è stata addossata al regime.
Sia chiaro: non difendo Assad. Il padre era un dittatore sanguinario, il figlio appare più fragile, ma sempre dittatore è. Se dovesse cadere , pochi lo rimpiangerebbero; però, ancora una volta, in una vicenda internazionale l’influenza dei media si rivela decisiva; grazie alla dabbenaggine dei giornalisti, considerato che la maggior parte di loro nemmeno si accorge di essere manipolata. Rilancia come vere, comprovate, assolute notizie che invece, se davvero i giornalisti conoscessero le tecniche di spin e manipolazione mediatica, andrebbero scrutinate con attenzione e, talvolta, smascherate in tempo reale.
Oggi non sappiamo chi siano davvero i rivoltosi ei controrivoltosi, mentre i media trasmettono fatti veri o parzialmente veri, frammisti a clamorose panzane, l’ultima l’ho sentita stamattina alla radio: Al Qaida avrebbe un ruolo crescente nella rivolta in Siria; sì proprio Al Qaida, che dal 2001 è stata data per morta tante volte e altrettante resuscitate e di cui, come si è saputo a distanza di anni, nemmeno Bin Laden aveva il controllo tanto era frammentata e sfilacciata.
Ecco nel grande caos siriano, mancava solo Al Qaida, la cui presenza è inverosimile, ma senz’altro funzionale a certi scopi.
E chi vuole capire ripassi. Infine, però, mi chiedo: quanti vogliono davvero capire?


La guerra della Siria (11)


Siria, si combatte ancora: Aleppo a ferro e fuoco

Le forze ribelli hanno respinto un’offensiva delle truppe governative in vari quartieri di Aleppo. Ma gli scontri continuano
di Sergio Rame

In Siria i combattimenti non si arrestano. Anzi, si fanno sempre più violenti e cruenti. Circa 200.000 persone sono fuggite negli ultimi due giorni da Aleppo, hanno riferito le Nazioni Unite. Le forze di sicurezza governative stanno portando avanti ad Aleppo una vera e propria caccia all'uomo alla ricerca di gruppi armati. Secondo l'agenzia di stampa di Stato Sana, le truppe continueranno a perseguire i ribelli finché la città non sarà "ripulita" dai gruppi armati: 168 morti, 94 dei quali civili, è infatti il drammatico bilancio della giornata di combattimenti di ieri.
Non solo. i combattimenti sono ripresi anche oggi. Gli attivisti parlano anche di esplosioni, sentite chiaramente "quando l’aviazione ha sorvolato la città".
Il capo dell’opposizione siriana in esilio ha detto che ad Aleppo si rischia "un massacro" se la comunità internazionale non scende in campo e ha rivolto un appello perché i ribelli vengano armati. "Vogliamo armi che ci consentano di fermare i blindati e i caccia", ha detto il presidente del Consiglio Nazionale Siriano, Abdel Basset Sayda. Nel frattempo, il ministro degli Esteri siriano, Walid al-Muallem, è volato a Teheran per colloqui con il governo. Secondo gli attivisti, gli scontri di oggi potrebbero segnare l’inizio di una fase decisiva per il controllo della città, un tempo fiorente hub commerciale. "Gli scontri sono avvenuti nei distretti di Bab al-Hadid, Zahraa, Arkub e Al-Hindrat Camp: si sono udite esplosioni mentre un aereo volavo in alto", ha spiegato l’Osservatorio. Testimoni sul posto hanno raccontato di feriti che giacciono al suolo e nessuno può avvicinarsi per l’intensità degli attacchi.
Nella notte, Sayda ha denunciato che "la comunità internazionale non risponde nella maniera attesa". A suo giudizio, il prossimo passo sul piano diplomatico non deve uscire dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, che fino ad ora è stato incapace di varare una risoluzione contro il regime per i veti di Russia e Cina. Anche l’inviato di Onu e Lega Araba per la Siria, Kofi Annan, si è detto estremamente preoccupato per la battaglia ad Aleppo e ha rinnovato l’appello perchè le parti si sforzino di trovare una soluzione politica condivisa. "L’escalation militare ad Aleppo e nella zona circostante - ha sottolineato in una nota diffusa a Ginevra - è una prova ulteriore della necessità che la comunità internazionale si incontri per convincere le parti che solo una transizione politica, che porti a un accordo politico, possa risolvere questa crisi e portare la pace al popolo siriano".
Adesso gli occhi sono puntati su Teheran. Muallem incontrerà il suo omologo, Ali Akbar Salehi e i due terranno una conferenza stampa congiunta al termine dell’incontro. L’agenzia di stampa Mehr ha datto sapere che il ministro siriano sarà ricevuto da vari dignitari iraniani. Secondo fonti ben informate, tra costoro ci sarebbe anche il capo del Supremo Consiglio Nazionale di Sicurezza, Saeed Jalili, che è molto vicino alla guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei.


La guerra della Siria (10)


Assad promette «Finiremo i ribelli» Appello del Papa


«Schiacceremo i ribelli ad Aleppo», fa sapere il regime siriano per bocca del suo ministro degli Esteri Walid Moallem. «Saranno sconfitti senza alcun dubbio». Damasco non intende cedere terreno («fermeremo la cospirazione contro la Siria») e per gli oppositori alla dittatura la situazione si fa sempre più difficile nonostante l'arrivo di «una nuova partita di armi e munizioni» - impossibile sapere da dove - oltre che di altri 200 combattenti. La battaglia per il controllo della città, un tempo bastione del presidente siriano Bashar Al Assad, è cruciale sia per il regime che per l'opposizione. E le notizie che arrivano sono contrastanti. «Stiamo assistendo oggi (ieri, ndr) a uno dei peggiori bombardamenti ad Aleppo - riferisce l'attivista Mohammed Saeed - ma i ribelli riescono ancora a tenere bene e le truppe di terra non sono riuscite a entrare in città», dove le truppe siriane hanno attaccato alcuni quartieri con carri armati e artiglieria. «Hanno poche armi e sono pochi», ha riferito sabato, nel suo ultimo servizio, Ian Pannel della Bbc, uno dei pochi giornalisti stranieri nel Paese. Il reporter britannico si trova nei pressi di Salah ad Din, uno delle roccaforti dei miliziani nella parte occidentale di Aleppo: «La potenza di fuoco che hanno di fronte è così schiacciante e Aleppo è così importante per il governo del presidente Assad che resistere sarà incredibilmente difficile, se non impossibile». Mentre la Lega araba, inerme come l'intera comunità internazionale, punta il dito contro i «crimini di guerra» che si stanno compiendo in Siria, ieri gli scontri tra i governativi e i ribelli si sono avvicinati al confine turco. Non solo. Secondo gli attivisti antigovernativi le forze del presidente hanno ucciso almeno 21 persone nella provincia meridionale di Daraa.Bombardamenti, violenze, una scia di sangue interminabile. Un totale di 168 morti, 94 dei quali civili, si contano quando Benedetto XVI si affaccia al balcone della residenza estiva a Castelgandolfo per recitare l'Angelus. E dall'alto della sua autorità interviene con un «pressante appello» perché in Siria «si ponga fine a ogni violenza e spargimento di sangue» e «non venga risparmiato alcuno sforzo nella ricerca della pace, anche da parte della comunità internazionale» con «dialogo e riconciliazione» per «un'adeguata soluzione politica del conflitto».Intanto ieri sono arrivati a Roma i due tecnici italiani Oriano Cantani e Domenico Tedeschi sequestrati il 18 luglio a Damasco e liberati dopo 10 giorni. I due hanno confermato di non sapere chi li abbia sequestrati, di essere stati liberati dall'«esercito siriano» e che non c'è stato un blitz: «No, non diretto», ha spiegato Cantani. «È stata una cosa tranquilla».

Yemen, il carabiniere ostaggio delle tribù

Il friulano Alessandro Spadotto preso da un gruppo locale, già responsabile di altri sequestri lampo

di Fausto Biloslavo

Le prossime ore saranno decisive per la sorte di Alessandro Spadotto, il carabiniere friulano di 29 anni rapito domenica nello Yemen. Si tratta di un rapimento tribale, non terroristico, che punta ad ottenere dal governo la scarcerazione di un detenuto membro del clan oltre alla restituzione di alcuni terreni nella capitale yemenita rivendicati dai rapitori. Il capo dei sequestratori, secondo l'agenzia on line Mareeb press, sarebbe Ali Nasser Hariqdan della tribù Obeida.
Un personaggino condannato a morte per aver ammazzato 2 militari, ma che evidentemente è stato liberato dopo il rapimento di un norvegese delle Nazioni unite. Il giovane Gert Danielsen era stato rapito in gennaio e gli Obeida avevano chiesto di scarcerare proprio Ali Nasser Hariqdan. Se è lui a capo del commando che ha preso Spadotto vuole qualcosa dal governo: promesse di impiego o sviluppo economico non mantenute, oppure la liberazione di qualche altro membro del clan.Il carabiniere sarebbe già stato portato nel Mareeb, la regione centrale roccaforte della tribù a 170 chilometri ad est di Sana'a, la capitale dove è stato rapito. Sempre gli Obeida in gennaio avevano incaricato dei banditi di sequestrare 6 dipendenti dell'Onu. Una volta accettate le condizioni della tribù sono stati liberati in 48 ore. Però più passa il tempo e si tergiversa sulla trattativa si corre il rischio che i rapitori vendano l'ostaggio ad al Qaida, come è capitato al vice console saudita rapito nella città meridionale di Aden lo scorso marzo.Il carabiniere di San Vito al Tagliamento (Friuli-Venezia Giulia) era arrivato nello Yemen da sole tre settimane. Addetto alla sicurezza dell'ambasciatore italiano è addestrato anche all'eventualità di venir rapito. Verso le 14 di domenica, ora locale, le 15 in Italia, Spadotto è uscito dall'ambasciata di Sana'a in borghese, ma con la pistola, arma individuale. Il carabiniere è andato in un centro commerciale per comprare una scheda telefonica. Dopo due ore, però, non era rientrato ed i suoi commilitoni hanno dato l'allarme. Non solo: è arrivato un suo sms che confermava il rapimento, ma cercava di aprire subito un canale di dialogo, che si cercherà di portare avanti in queste ore. «Di solito i rapitori si fanno sentire nel giro di 2-3 giorni e spesso chiedono la liberazione di un membro della tribù in prigione» spiega William Strangio, capo missione dell'ong italiana Intersos a Sana'a. L'apparato di sicurezza del governo è indebolito dalla fine tumultuosa dell'era Saleh, il presidente padrone del paese per 33 anni. La criminalità è aumentata e le tribù, vera ossatura dello Yemen, si sentono più forti. In gennaio 6 dipendenti dell'Onu sono stati rapiti su commissione a causa di rivendicazioni tribali. Due mesi fa c'erano stati degli allarmi a Sana'a per possibili sequestri di occidentali. «Non usciamo di casa alla sera e non restiamo in strada a piedi - spiega Strangio a Il Giornale - Ci facciamo venire a prendere e riportare da tassisti fidati».Il rapimento più eclatante di Abdullah al-Khalidi, vice console saudita ad Aden, «capitale» del sud, era nato inizialmente come tribale. Il diplomatico avrebbe avuto una relazione sconveniente con una ragazza del clan. La faccenda si è complicata e la tribù lo ha venduto ad al Qaida. I terroristi minacciano di decapitarlo, ma hanno già ottenuto la liberazione di cinque loro donne dalle galere saudite. Adesso, secondo il mediatore sempre tribale, basterebbe pagare il riscatto, solo mezzo milione di dollari, per far liberare l'ostaggio. Sorte simile sarebbe capitata ad una donna svizzera che insegnava nella città centrale di Hobeida, sul Mar Rosso, ma per lei il riscatto sarebbe di 5 milioni di dollari. Era l'unica occidentale in ostaggio nello Yemen prima del rapimento del carabiniere. Il ministro degli Esteri, Giulio Terzi, ha parlato con il suo omologo yemenita Abu Bakr al Qirbi: «Ho avuto la totale assicurazione di una massima collaborazione per favorire il rilascio del nostro addetto alla sicurezza». Poi ha aggiunto che «la priorità assoluta deve essere anzitutto quella di tutelare l'incolumità del nostro connazionale». Tradotto: niente blitz per liberarlo. E di conseguenza veloce concessione delle richieste ai rapitori.L'ostaggio è in forza al 13° reggimento Friuli-Venezia Giulia con base a Gorizia. I genitori vivono a San Vito il Tagliamento. Il papà è un ex carabiniere che ha guidato la protezione civile locale. «Se sarà liberato stapperemo una bottiglia tutti insieme - dice il genitore - ma per il momento vorremmo essere lasciati in pace». Più loquace il sindaco, Antonio Di Bisceglie: «Alessandro è un ragazzo serio, compito che ha sempre onorato il servizio allo Stato e interpreta in modo ligio il suo dovere». Il primo cittadino è «fiducioso sul rilascio» del carabiniere, figlio unico e fidanzato con una ragazza del paese friulano
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martedì 24 luglio 2012

Inchiesta


ROMA A TUTTO CEMENTO

di Francesco Erbani


Due mila ettari di terreno lasceranno il posto a 66 mila case. Merito degli "ambiti di riserva", aree selezionate dal Comune per circa 200 mila abitanti. Tanti quanti quelli di Salerno o Brescia. Legambiente denuncia che nella Capitale già esistono più di 250 mila appartamenti vuoti. Alemanno promette che questi alloggi, fuori dal Piano Regolatore del 2008, saranno in parte destinati all'edilizia popolare. Ma è necessario costruire ancora?


Su Roma una nuova pioggia di case la campagna nelle mire dei palazzinari


ROMA - Il titolo è burocraticamente innocuo: "Ambiti di riserva a trasformabilità vincolata". Il senso è un altro. Su Roma possono abbattersi 66 mila nuovi alloggi, cioè 23 milioni di metri cubi di appartamenti che si piazzeranno su 2 mila 400 ettari di campagna romana. Le lottizzazioni sono sparse per ogni dove nelle "erme contrade", come Giacomo Leopardi chiamava nella Ginestra la cintura agricola intorno alla città - e "erme" vuol dire solitarie. 


Una campagna dove, nonostante tante aggressioni, si fa ancora molta agricoltura, dove fitta è la trama archeologica e altissimi i valori paesaggistici. Se in ogni appartamento andranno a vivere dalle due alle tre persone, ecco profilarsi, dentro il territorio comunale, una città dai 130 ai 200 mila abitanti. Grande quanto Salerno o quanto Brescia. Che viola persino il Parco dell'Appia Antica, ai bordi del quale potrebbe sorgere un bel quartiere con 3 mila abitanti. L'allarme è alto. Sono mobilitate le associazioni ambientaliste, i comitati di cittadini preparano barricate. Nei giorni scorsi si è svolto un sit-in davanti al Campidoglio. È intervenuto anche l'Istituto nazionale di urbanistica (Inu). E due deputati di Pd, Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, hanno presentato un'interrogazione parlamentare. Ma, prima di tutto: c'è bisogno d'altro cemento a Roma? Il Piano regolatore, approvato appena quattro anni fa dalla giunta di Walter Veltroni, prevede edificazioni per 70 milioni di metri cubi, un diluvio di calcestruzzo che sta inondando di gru, di villette e di palazzi la capitale in tutte le direzioni - la terribile "macchia d'olio" descritta cinquant'anni fa da Antonio Cederna -, ma che non trova giustificazioni nella crescita demografica: l'ultimo censimento inchioda la popolazione residente a 2 milioni 600 mila abitanti, appena 50 mila in più rispetto al 2001. I 66 mila nuovi alloggi sono proprio nuovi, cioè sono oltre quelli del Piano, molti dei quali appena costruiti giacciono lì, invenduti, a fare la muffa e a impensierire le banche che con i costruttori si sono esposte enormemente e ora vedono in pericolo i capitali anticipati, prefigurando scenari da bolla immobiliare spagnola. Si attendono i dati dell'ultimo censimento, ma nel 2001 risultavano 193 mila appartamenti inutilizzati che, secondo molti, è una cifra molto sottostimata. Legambiente calcola almeno 250 mila appartamenti vuoti a Roma. 
Uno dei requisiti fissati dal Comune è proprio che i nuovi alloggi vengano costruiti in suoli che il Piano riserva come agricoli. Molto esplicita la relazione del Dipartimento urbanistica del Comune di Roma: "Le aree selezionate andranno ad aggiungersi agli Ambiti di Riserva a trasformabilità vincolata già individuati dal Prg vigente". Insomma è come se il Piano, abbondantemente sovradimensionato e sottoutilizzato, fosse già carta straccia. Inoltre, fa notare l'Inu, non vengono attuati 35 Piani di Zona già approvati per realizzare case popolari, cioè case di proprietà pubblica. 
Per Gianni Alemanno e per il suo assessore all'urbanistica, Marco Corsini, arriva in porto una promessa fatta ai romani subito dopo l'insediamento in Campidoglio nel 2008 per fronteggiare l'emergenza abitativa, molto alta nonostante le troppe case che si costruiscono ma che restano inaccessibili ai ceti più deboli. I 66 mila appartamenti servono, dice il sindaco, perché destinati in parte ad housing sociale. Che vuol dire case ad affitti agevolati, realizzate da privati i quali ottengono in cambio licenze per costruire altre case da vendere a mercato libero. Sei euro al metro quadrato, assicurano al Comune, l'importo di un affitto agevolato, 420 euro per una casa di 70 metri quadrati, due stanze, doppio bagno, cucina e soggiorno. Ma su questa materia non esistono norme di legge, tutto dipenderà dalle convenzioni fra Comune e costruttori. 


Appena eletto, Alemanno lanciò un bando per dare casa, diceva, a chi casa non se la poteva permettere - giovani coppie, single, studenti fuori sede, famiglie a basso reddito. Ma neanche poteva accedere alle liste per vedersi assegnato un alloggio popolare, che a Roma come in tutta Italia si costruiscono sempre meno. Sono arrivate 334 proposte. Una commissione le ha valutate e ne sono state selezionate 160 (che potrebbero forse scendere a 135: ma sono pur sempre 20 milioni di metri cubi). Il Comune sostiene che si tratta solo di una ricognizione. Mancano passaggi fondamentali, primo fra tutti l'approvazione di una variante urbanistica in Consiglio comunale, che ha tempi molto più lunghi di quelli che mancano alla fine della legislatura (primavera 2013). Ma non sfugge alle associazioni ambientaliste e ai comitati quanto la pubblicazione della lista sul sito del Comune generi aspettative sfruttabili elettoralmente, faccia sentire i proprietari selezionati in possesso di diritti e soprattutto inneschi meccanismi di valorizzazione fondiaria (un terreno edificabile vale enormemente di più rispetto a uno agricolo). Circolano depliant di cooperative edilizie, se ne parla sui social network.


Da Nord a Sud, da Est a Ovest, la mappa degli "ambiti di riserva" che compare in rete è un florilegio di puntini neri sparpagliati dovunque, quasi un fiotto di coriandoli lanciati per aria e piovuti al suolo, senza nessuna logica di pianificazione. Senza nessun supporto del trasporto pubblico. Basti pensare che una delle prescrizioni imposte dal bando del Comune è che il terreno sul quale costruire sia a non più di 2 chilometri e mezzo da una fermata dell'autobus. Che comunque deve essere raggiunta in macchina.  


I tagli dei terreni sono vari. Si va dai 2 ettari e poco più a Tor Vergata, dove si possono realizzare 82 appartamenti ai 90 ettari complessivi della società agricola Cornacchiola, dove di appartamenti se ne possono fare 2.500. Questo terreno, diviso in due parti, è il più grande degli insediamenti previsti in tutta Roma, ma non è solo questo il primato di cui può fregiarsi. Questi 90 ettari si stendono proprio al confine con il Parco dell'Appia Antica, zona con vincoli di ogni genere, archeologici e paesaggistici e che, nonostante tutte le norme impongono debba restare integra, potrebbe essere lo scenario di stupefacente bellezza sul quale affacceranno finestre, balconi e terrazzi di oltre cinquemila persone. Un vero sfregio per la Regina viarum, che si aggiungerebbe agli abusi che la vilipendono da decenni. Ma sono picchiettate di lottizzazioni zone adiacenti altri parchi, come quelli di Veio, della Marcigliana o la Riserva del Litorale.  


"Dal bando per l'housing ci aspettavamo un disastro", sbotta Lorenzo Parlati, presidente di Legambiente Lazio, "ma i risultati che Alemanno vorrebbe approvare sono peggiori di qualsiasi incubo. L'associazione dei costruttori aveva chiesto l'1 % del territorio e Alemanno ne elargisce quasi il 2 %. Una brutta ipoteca sul futuro, visto che il sindaco non potrà mai vedere attuata prima delle elezioni l'assurda variante generale al Piano Regolatore scritta sulla base dei risultati di un bando, ma rischia di generare diritti edificatori che non ci toglieremo più". Molto duro è anche il giudizio di Italia Nostra che si dice "assolutamente contraria a tale iniziativa perché porta ad una dispersione caotica dei nuovi insediamenti residenziali che non rispondono ad alcun progetto di città ma sono determinati casualmente in base alle offerte della proprietà fondiaria. Prima di pensare a nuove urbanizzazioni dell'Agro romano, sarebbe piuttosto necessario utilizzare le aree e i fabbricati dismessi o sottoutilizzati da censire immediatamente per trovare soluzioni alternative e più articolate all'emergenza abitativa".


A Roma Nord, nel XIX Municipio, calano 29 insediamenti, per un totale di 454 ettari e quasi 15 mila appartamenti. Un acquazzone cementizio anche nel confinante XX Municipio, 357 ettari compromessi da oltre 10 mila appartamenti. In questi due Municipi risiede il Parco di Veio, da dove sono arrivati alcuni capolavori archeologici ora custoditi nel Museo di Villa Giulia. Altri insediamenti per oltre 110 ettari si annunciano nella zona di Porta di Roma, sempre a Nord della città, dove sono stati costruiti negli ultimi sei anni quasi 3 milioni di metri cubi e dove la sera, se ci si aggira fra le palazzine tirate su da Caltagirone, dai fratelli Toti e da Mezzaroma, i grandi nomi dell'edilizia romana, sono pochissime le finestre illuminate in un desolato panorama di case vuote. In pericolo le aree verdi di Selva Candida e Villa Santa, la Cecchignola, Colle della Strega. E altre palazzine potrebbero prendere il posto degli ulivi secolari nei 30 ettari di una tenuta a pochi metri da Villa Segni, un edificio storico sull'Anagnina. Anche qui vincoli paesaggistici e vincoli archeologici non sono bastati: questo terreno è finito, insieme agli altri 159, nella lista che potrebbe sconvolgere gli assetti già molto precari di Roma.
16 luglio 2012

La guerra della Siria (9)


Siria, allarme delle Nazioni Unite 1,5 milioni di sfollati interni

​È salita fino a un milione e mezzo la stima del numero di sfollati interni in Siria dall'inizio delle violenze. Lo ha detto oggi  Ginevra la portavoce dell'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) Melissa Fleming citando gli ultimi dati della società della Mezzaluna rossa siriana.  "Abbiamo dati tra un milione e un milione e mezzo" per il numero di persone fuggite dalle proprie case ma rimaste nel Paese, "molti dei quali hanno sempre più bisogno di assistenza umanitaria", ha aggiunto Fleming. La settimana scorsa la stima dell'Onu era di un milione di sfollati, ma si trattava di un dato molto prudente che è stato aggiornato, ha precisato la portavoce.  La gente continua a fuggire, molti scelgono di raggiungere i Paesi confinanti: Libano, Giordania, Turchia. Circa 125mila persone hanno scelto di rifugiarsi all’estero da quando è scoppiato il conflitto

 A Damasco, migliaia di persone hanno trovato rifugio in scuole e giardini pubblici. In tutto, 58 edifici scolastici ospitano famiglie siriane. In 16 mesi di violenze e scontri, alcuni sono sfollati per la seconda volta, dopo essere già fuggiti da Homs, ha osservato la portavoce.

Continua inoltre l'esodo dei siriani nei Paesi vicini, così come dei rifugiati iracheni in Siria. Circa 10mila di loro sono tornati in Patria da mercoledì scorso, con il sostegno del governo di Baghdad, che ha organizzato voli speciali, e dell'Unhcr. Molti rifugiati iracheni si sono rivolti all'Unhcr in Siria riferendo di una situazione sempre più a difficile. Alcuni hanno evocato minacce dirette, altri il timore di restare coinvolti nei combattimenti. 
Sul fronte dei siriani in fuga nei Paesi confinanti, il Libano ha registrato un totale di 30mila rifugiati, anche se il numero effettivo non è noto poichè non tutti si registrano. In Giordania, i rifugiati siriani registrati sono 36mila, ma altre decine di migliaia  sarebbero presenti. In Turchia, il numero di rifugiati siriani registrati è di oltre 44mila.  L'Unhcr ha espresso apprezzamento per la decisione di Giordania, Libano, Iraq e Turchia di mantenere aperte le frontiere ai siriani in fuga. 

Non si fermano i combattimenti. È di almeno 14 morti il bilancio delle ultime violenze esplose oggi in tutta la Siria. Lo ha reso noto l'Osservatorio siriano per i diritti umani sottolineando che solo ieri hanno perso la vita nel Paese 116 persone. Tra le vittime ci sono quattro civili e un ribelle morti ad Aleppo, quattro civili uccisi a Damasco, un militante a Deir Ezzor e quattro soldati del regime a Idlib. Ieri notte, invece, almeno otto persone sono morte in una prigione di Aleppo dove c'era stato un tentativo di rivolta sedato poi dalle forze di sicurezza.
Tra le vittime ci sarebbe anche Hamza al-Bakkari, considerato il capo dei ribelli che combattono nella città di Aleppo contro il regime di Bashar al-Assad. A dare la notizia è stata la tv di stato 'al-Ikhbariyà. Al-Bakkari era il leader della cosiddetta 'Falange al-Tawhid' di cui fanno parte miliziani salafiti. A confermare la notizia della sua uccisione sono anche i gruppi dell'opposizione siriana che hanno diffuso su Youtube il video del cadavere del miliziano ucciso, mostrando come il suo collo sia stato marchiato dagli uomini di Assad con un simbolo militare.



www.avvenire.it

La guerra della Siria (8)


Siria, le dimissioni di Assad non ci saranno

La Lega Araba le richiede perché è convinta che il regime sia prossimo alla fine. E che Hezbollah per Assad non sia più un “passaporto” di popolarità. Ma il presidente vuole combattere fino alla fine


 di Anna Momigliano
La Lega Araba ha chiesto ufficialmente le dimissioni di Bashar al-Assad, il presidente siriano che da un anno e mezzo sta reprimendo le rivolte nel sangue. “Vi è un'intesa in favore di una dimissione rapida del presidente Bashar al-Assad in cambio di un'uscita sicura”, ha dichiarato Hamad Ben Jassam Al-Thani, il primo ministro del Qatar, il Paese che ha ospitato il summit dell'organizzazione che vanta 21 Paesi membri.La dichiarazione non era inaspettata, tuttavia indica che l'isolamento di Assad ormai è totale. Tra Siria e Lega Araba non è mai corso buon sangue fin dalla fine degli anni Settanta, quando l'allora presidente Hafiz al-Assad (padre di Bashar) pose fine a una storica alleanza con l'Egitto avvicinandosi sempre più all'Iran, nazione musulmana ma non araba, che con i vicini appartenenti alla Lega non intrattiene buoni rapporti. La Siria, che tecnicamente rimane un Paese membro, non prende più parte ai vertici dell'organizzazione dal novembre dello scorso anno.Le rivolte infatti hanno messo ulteriore distanza tra la Siria e le altre nazioni arabe, per due ragioni. La prima è che, a seguito delle rivoluzioni in Egitto, Tunisia e della caduta del regime in Libia, i capi di Stato e di governo sono cambiati: un tempo leader come Hosni Mubarak e Muammar Gheddafi (che pure non erano amici di Damasco), erano disposti a chiudere un occhio davanti alla repressione del regime siriano, temendo che anche i loro governi autoritari potessero cadere, ma adesso molti dei Paesi mediorientali sono guidati da una classe che è emersa proprio dalle rivoluzioni dello scorso anno, e dunque non teme più di tanto la volontà popolare. Inoltre dall'inizio della rivolta in Siria alcuni Paesi del Golfo, Arabia saudita e Qatar in testa, hanno sostenuto attivamente i ribelli: dal loro punto di vista, la caduta di Assad è un'occasione per trasformare la Siria da nemico ad alleato.Resta da chiedersi due cose: perché la Lega Araba ha chiesto soltanto adesso le dimissioni di Assad? E inoltre: questa richiesta avrà effetti concreti?Sono ormai mesi che gli Stati Uniti dicono apertamente che Assad deve andarsene, e non è un mistero che molte nazioni arabe la pensino allo modo: soprattutto Qatar e Arabia saudita, come si diceva prima, ma anche Egitto, dove al governo ci sono i Fratelli Musulmani, che sono anche una componente importante dei ribelli siriani. Tuttavia finora la Lega Araba aveva pesato bene ogni parola, perché voleva porsi come mediatore sopra le parti, tanto che aveva mandato anche osservatori sul campo.Inoltre i Paesi arabi non volevano correre il rischio di essere accusati di cedere alla “retorica occidentale.” Prima dell'inizio della ribellione, infatti, Assad poteva contare su una discreta popolarità nel mondo islamico grazie alla sua immagine di “difensore della resistenza” contro l'America e Israele. Uno dei suoi punti di forza consisteva nel sostegno a Hezbollah, il partito-milizia che ha inflitto dure perdite all'esercito israeliano nella guerra del 2006 e che probabilmente è responsabile della strage della scorsa settimana in Bulgaria.Se adesso i Paesi arabi si sentono liberi di chiedere apertamente le dimissioni di Assad, questo significa che sono convinti che il regime sia prossimo alla fine, e che oramai la carta della “resistenza” non ha più un valore, che Hezbollah non è più un “passaporto” di popolarità: del resto la stessa milizia islamica si è messa in una difficile situazione, schierandosi dalla parte del regime. A questo va aggiunto che l'Iran, principale sponsor del governo di Damasco, è uscito molto indebolito dalle Primavere arabe, che hanno creato un fronte relativamente compatto tra le nazioni mediorientali contro Teheran. Il punto, insomma, è che non solo la Siria è più sola che mai, ma anche che il suo “protettore,” ossia il regime iraniano, non fa più paura ai vicini arabi.Venendo alla seconda domanda, è difficile credere che Assad si dimetta sulla richiesta della Lega Araba e che accetti l'offerta di una “uscita sicura.” Già in passato, all'inizio delle rivolte, il Qatar aveva offerto di ospitare la sua famiglia (la moglie Asma, e i tre figli, ancora bambini), ma la cosa era caduta nel nulla. La scorsa settimana, un diplomatico russo aveva rilasciato un'intervista in cui sosteneva che il presidente siriano era “disposto a dimettersi, ma in maniera civile,” tuttavia il Ministero degli Esteri di Mosca aveva ritrattato subito.Assad a questo punto ha capito che il suo governo ha i giorni contati, ma pare deciso a morire con le armi in pugno. Questo potrebbe sorprendere alcuni osservatori, dopotutto, a differenza di altri tiranni come Saddam Hussein e Muammar Gheddafi, Bashar al-Assad non rientra nello stereotipo del “tiranno in divisa”: è una persona colta (prima di salire al potere faceva il medico), i suoi modi sono educati e pacati (chi l'ha conosciuto prima della crisi racconta che era persino una persona “gradevole”), ha vissuto in Occidente (ha persino operato in un'ospedale di Londra) e a differenza di Saddam e di Gheddafi non si fa vedere quasi mai con la divisa e men che meno con delle armi. Ma è anche un uomo molto orgoglioso, che vede la Siria come una sua proprietà personale ed è nel contempo convinto di essere l'ultima ancora di salvezza della sua nazione.Si racconta che sette anni fa minacciò Rafiq Hariri (l'allora primo ministro libanese, poi ucciso in un misterioso attentato) con queste parole: “Non metterti contro di me, perché se io cado, trascinerò il Libano all'inferno con me.” Ora Assad ha dimostrato di essere pronto a trascinare con sé non soltanto una nazione straniera, ma anche la sua stessa Siria.



Siria, le dimissioni di Assad non ci saranno


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Dieci cose che accadono oggi: martedì 24 luglio

Dalla Siria che ammette di avere armi chimiche a Michelle Obama alle Olimpiadi


Dieci cose che accadono oggi: martedì 24 luglio
Tifone ad Hong Kong (Credits: AP Photo/Kin Cheung)

di Anna Mazzone
1. Damasco ammette di avere armi chimiche. Il minisro degli Esteri siriano, Jihad Makdissi, ha dichiarato che Damasco ha armi chimiche ed è pronta ad usarle nel caso di un'aggressione "esterna". Intanto, i ribelli hanno accusato le autorità di avere trasferito armi chimiche alla frontiera. L'utilizzo di armi chimiche sarebbe "un tragico errore", ha commentato in particolare il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama.
2. Giorno di sangue in Iraq. E' di almeno 107 morti e 216 feriti il bilancio degli attentati avvenuti ieri in 18 diverse località in Iraq: lo hanno reso noto fonti della sicurezza irachena, in quella che è la giornata più sanguinosa da oltre due anni a questa parte. Il 10 maggio del 2010 il bilancio di diversi attentati, soprattutto a Baghdad, era stato di 110 morti.
3. Joker rischia la pena di morte. Dodici morti, 58 feriti. E un'altra strage architettata nel suo appartamento. James Holmes, l'autore della sparatoria di Aurora, in Colorado, ieri si è presentato in tribunale per la prima udienza preliminare e sarà formalmente accusato lunedì prossimo. L'accusa potrebbe chiedere la condanna a morte, ma le esecuzioni sono rare in Colorado, come ricorda il Wall Street Journal.
4. Usa: muore la prima donna nello spazio. Sally Ride, la prima donna americana a viaggiare nello spazio, è morta ieri all'età di 61 anni dopo una lunga malattia. Ride non è sopravvissuta a un cancro al pancreas, ha annunciato la sua fondazione. Sally Ride era stata per la prima volta nello spazio nel giugno del 1983 a bordo di una navetta spaziale della Nasa.
5. Tour europeo per Mitt Romney. Il candidato repubblicano alla Casa Bianca, Mitt Romney mette da parte il duello contro Barack Obama, almeno questa settimana. Ad attenderlo è infatti una missione diplomatica all'estero in cui incontrerà i leader di Regno Unito, Israele e Polonia. Questo viaggio di sei giorni - il primo da quando Romney ha ottenuto la nomination con il GOP in aprile - gli permetterà di cimentarsi sul terreno, per lui abbastanza inedito, della politica estera.
6. Hong Kong colpita da un tifone. Alberi divelti, tetti dell case sradicati, pioggia, scuole chiuse, strade allagate. Hong Kong si sveglia in uno scenario apocalittico, dopo che le piogge dei giorni scorsi hanno portato a 37 i morti di Pechino. Il tifone "Vicente" viaggia a 140 km orari ed è il più pericoloso degli ultimi 13 anni. Anche la Borsa di HK oggi è rimasta chiusa.
7. Georgia: sospesa un'esecuzione capitale. La Corte Suprema della Georgia sospende l'esecuzione di Warren Hill, il nero americano di 52 anni di cui 21 trascorsi nel braccio della morte, con problemi di infermità mentale. In Colorado, lo Stato dove si trova Aurora, teatro della strage alla prima di Batman, vige la pena capitale dalla quale sono esclusi i minorenni e gli infermi mentali. La difesa di James Holmes, il sospetto Killer, potrebbe decidere di percorrere questa strada
8. Francia: domanda sessista a una ministra. Polemiche in Francia per le domande di un giornalista diRadio Europe 1, Daniel Schick, alla ministra per l'innovazione Fleur Pellerin, sudcoreana adottata.''Lei sa perché è stata scelta? Perché è una bella donna di origini diverse da quelle francesi? Perché appartiene a una minoranza poco visibile? Perché è la prova di un'adozione riuscita? Perché è un segnale forte per i mercati asiatici? O unicamente perché eè competente?''. ''Spero per l'ultima ragione'', ha risposto lei
9. Cuba: Payà è stato ucciso? La famiglia di Oswaldo Payà - uno dei più noti esponenti della dissidenza di Cuba, deceduto domenica in uno scontro automobilistico a circa 900 chilometri dall'Avana - non crede alla versione dell'incidente stradale. Per la figlia di Payaà, Rosa Maria, la sua morte è stata provocata intenzionalmente. La donna ha riferito di alcune testimonianze in base alle quali un camion stava tamponando l'auto in cui viaggiava l'oppositore cubano, cercando di farla uscire di carreggiata.
10. Michelle sta per volare a Londra. Michelle Obama approfitterà delle Olimpiadi di Londra per promuovere la sua campagna contro l'obesità. La First lady guiderà la delegazione statunitense nella capitale britannica, dove sarà da giovedì a domenica per assistere alla cerimonia d'apertura e ad alcune competizioni.

lunedì 23 luglio 2012

La guerra della Siria (7)


Pulizia etnica in Siria, fucilati 20 uomini disarmati

Fucilati 20 civili fra i 20 e i 30. Si muove la Ue: rafforzati l'embargo e le sanzioni. Terzi: "E' pulizia etnica"

In Siria è iniziata una vera e propria pulizia etnica. Nella notte a Damasco, nel quartiere di Mezzeh, le truppe regolari siriane hanno fucilato almeno venti uomini disarmati perché sospettati di aver aiutato i ribelli. Nel frattempo l'Unione europea ha deciso di estendere le sanzioni contro la Siria rafforzando, in particolar modo, l’embargo in vigore sulle armi.
Sale la tensione in Siria.
La guerra civile si sta trasformando in pulizia etnica con l'esercito siriano a caccia dei ribelli da giustiziare. ieri si sono registrati, infatti, nuovi episodi di inaudita violenza. "I corpi - spiega una fonte da Damasco - sono stati raccolti dai quartieri di al-Ikhlas, al-Zayat, al-Farouk, Hawakir al-Sabbarah e al-Basatin e portati tutti nella moschea di al-Mustafa. Hanno diversi fori di pallottola". Uno ne ha almeno 18. Tre hanno le mani legate dietro la schiena. "Alcuni sono in pigiama - racconta spiega l’attivista Bashir al-Kheir - molti hanno le dita rotte o amputate, altri sono stati sgozzati".
Intanto il portavoce del ministero degli Esteri siriano ha fatto sapere che le armi chimiche sono "sotto il controllo dell'esercito", ma non verranno usate, "a meno che la Siria non venga attaccata da paesi stranieri". Il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, ha avvisato che "il governo siriano è responsabile della sicurezza delle armi chimiche" e la "comunità internazionale riterrà responsabile" chiunque del governo siriano consentirà l'uso di queste armi.
Mentre in Siria continua la carneficina, si muovono gli organi internazionali. Nella riunione dei 27 ambasciatori Ue è stato deciso di rafforzare le sanzioni. Le nuove misure consentiranno ai Paesi europei di compiere ispezioni su navi e aerei dal carico "sospetti" nei propri aeroporti, porti e acque territoriali, nel rispetto delle norme internazionali, e colpiranno altri 26 individui e alcune altre entità che sostengono soprattutto economicamente il regime di Assad. Il congelamento dei beni e il blocco dei visti, sarà effettivo a partire da domani, con la pubblicazione sulla gazzetta ufficiale dell’Unione europea. Sono già 129 le persone e 49 le entità sulla "lista nera" dell’Unione europea. Alcune di queste, come i ministri della Difesa e i responsabili dell’intelligence, sono rimaste uccise negli ultimi attentati. "La battaglia dell’esercito siriano contro la propria popolazione rasenta la pulizia etnica e i crimini contro l’umanità", ha detto il ministro degli esteri Giulio Terzi al suo arrivo a Bruxelles spiegando che l'esercito siriano sta combattendo "una battaglia assolutamente inaudita di massacro della propria popolazione""È andato ben al di là di qualsiasi altra repressione vista in altri paesi della primavera araba, qualcosa che nel nostro mondo non dovrebbe esistere - ha concluso il titolare della Farnesina - qualcosa che rasenta la pulizia etnica e i crimini contro l’umanità".

Iran

Netanyahu: "Iran ed Hezbollah dietro la strage di Burgas"

Pochi i dubbi del primo ministro israeliano sul mandante e sull'esecutore dell'attentato kamikaze che ha ucciso otto turisti in Bulgaria


di Anna Momigliano

Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non ha dubbi: dietro la strage di turisti israeliani in Bulgaria, che ha provocato otto morti (incluso un bambini e due donne incinte) e 31 feriti, di cui alcuni gravi, c'è l'Iran. Ieri pomeriggio all'aeroporto di Burgas, cittadina balneare bulgara sul Mar Nero, un autobus carico di turisti israeliani è stato fatto saltare in aria, pare da un terrorista suicida. L'esercito israeliano sta organizzando il rimpatrio dei superstiti, dei feriti e delle salme con voli militari speciali.
Per il momento non si sono rivendicazioni, ma gli israeliani sono convinti della responsabilità del regime degli ayatollah. E qualcuno si aspetta che il governo di Gerusalemme possa rispondere colpendo direttamente sul territorio iraniano: del resto voci di un attacco aereo di Israele contro Teheran circolavano già da prima, viste le forti preoccupazioni sul programma nucleare e le minacce da parte di Mahmoud Ahmadinejad. di "cancellare Israele dalle cartine geografiche". Netanyahu ha avvertito: "Ci sarà una forte risposta contro il terrorismo iraniano". Sullo stesso tono anche il ministro della Difesa Ehud Barak: "Perseguiremo gli autori".
Se davvero, come dicono gli israeliani, la strage è avvenuta su ordine diretto dell'Iran, resta da chiedersi chi l'abbia compiuta fisicamente. Alcuni elementi puntano in una direzione: Hezbollah.
Milizia e partito politico libanese, Hezbollah si ispira all'islam sciita più radicale, lo stesso degli ayatollah. Hezbollah ha forti legami sia con la Siria che con l'Iran. Ma il rapporto con Teheran è molto più stretto: "Hezbollah è l'Iran, ma per sopravvivere ha bisogno del sostegno logistico di Damasco", aveva sintetizzato qualche tempo fa il dissidente siriano Ayman Abdel Nour.
Già più volte, in passato, Hezbollah ha effettuato attentati suicidi contro obiettivi israeliani, a Gerusalemme, Tel Aviv e all'estero. Gli episodi più noti sono la sequela di attacchi bombaroli contro gli autobus israeliani a ridosso delle elezioni del 1996 (poi vinte da proprio da Netanyahu), e l'attentato contro l'ambasciata israeliana di Buenos Aires, nel marzo del 1992, dove sono morte 29 persone. La strage di Buenos Aires, probabilmente, era stata coordinata con le alte sfere del regime iraniano, tanto che da allora l'Argentina ha pessimi rapporti con il regime di Teheran.
Anche la tempistica farebbe pensare alla mano di Hezbollah: sono passati dieci anni dalla carneficina di Buenos Aires ed è possibile che la milizia sciita abbia voluto "festeggiare" la ricorrenza. La teoria dell'anniversario pare confermata in parte dalle notizie, diffuse ieri, che ci sarebbe già stato un tentativo di attentato anti-israeliano (in questo caso sventato) in primavera.
Per Hezbollah, questo è tuttavia un momento estremamente delicato. Da quando sono scoppiate le rivolte in Siria, la milizia ha sostenuto costantemente Assad, arrivando a mandare anche guerriglieri sul campo a combattere insieme alle truppe governative, che sono accusate di massacri contro i civili. Hezbollah non aveva scelta, il legame con Damasco era troppo forte, ma adesso ha perso molta della sua popolarità nel mondo arabo, dove Assad ormai è percepito come un macellaio. Contemporaneamente, la milizia sciita rischia di essere trascinata nella sconfitta del regime, che secondo alcuni potrebbe essere vicina.
La domanda, dunque, è: se cade Assad, cadrà anche Hezbollah? E, senza Assad, quale potrebbe essere il futuro della milizia sciita? Secondo alcuni, in mancanza di Damasco, il legame con Teheran diventerebbe ancora più granitico.


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domenica 22 luglio 2012

La guerra della Siria (6)

Siria. La diaspora dei cristiani

La comunità, 2,5 milioni di persone, è sempre stata protetta dagli Assad. Ma ora che l’integralismo islamico si rafforza la fuga è iniziata


di Giovanni Porzio


La guerra sembra lontana da Maalula. Un’autobomba è appena esplosa nel centro di Damasco, all’ospedale militare sono allineate le bare dei 52 soldati caduti negli ultimi scontri alla periferia della città e nelle strade del sobborgo di Duma si combatte a colpi di mortai e di lanciarazzi. Ma nell’antico villaggio cristiano, arrampicato su una glabra collina di pietre color sabbia a una quarantina di chilometri dalla capitale, le 15 monache greco-ortodosse del monastero di Santa Tecla conducono la vita di sempre: pregano in aramaico, l’idioma di Gesù, nelle grotte del convento; riempiono giare di profumata composta di albicocche; distribuiscono olio e acqua santa ai rari pellegrini.
A rompere l’incantesimo è Belajia Sayaf, la madre superiora, che non ha peli sulla lingua. Ed è un fiume in piena: "Oh sì, Santa Tecla fa molti miracoli: guarisce gli ammalati. Ma ora ci vorrebbe un miracolo per fermare questa guerra insensata! L’Occidente arma la mano dei fondamentalisti islamici decisi a distruggere secoli di pacifica convivenza tra le religioni e le minoranze siriane. Ci impone sanzioni che colpiscono la povera gente: non possiamo più esportare i nostri prodotti agricoli e i prezzi dei generi di prima necessità sono saliti alle stelle. I cristiani se ne vanno, a migliaia. Hanno paura. Non vogliono tornare nelle catacombe".
Era già accaduto nel vicino Iraq dopo la cacciata di Saddam Hussein nel 2003, con l’esodo di massa di oltre 300 mila fedeli costretti a espatriare. E ora lo spettro della pulizia etnica e della persecuzione è diventato l’incubo dei 2,5 milioni di cristiani di Siria, il 10 per cento della popolazione. La dinastia degli Assad, espressione della setta musulmana alawita, ha protetto le minoranze religiose ottenendo in cambio un appoggio non del tutto convinto (numerosi cristiani sono finiti nelle prigioni di Damasco) e tuttavia utile a sostenere la stabilità e la continuità del regime. Ma da quando l’effimera primavera siriana è stata soffocata dai tank di Damasco e dai kalashnikov di un’opposizione sempre più egemonizzata dai "takfir", gli integralisti islamici armati e finanziati dalle monarchie sunnite del Golfo, la rivolta ha cominciato inesorabilmente a scivolare nel vortice di una guerra civile nel quale i cristiani rischiano di essere i primi a precipitare.
Gli sfollati raccontano che a Hama quasi tutti i 20 mila seguaci di Cristo sono stati espulsi. A Homs i miliziani qaedisti della brigata Faruq hanno costretto alla fuga la maggior parte dei 100 mila cristiani e hanno occupato le loro case nei quartieri di Hamidiya e Bustan al-Diwan: nella città vecchia non ne restano più di 120 ed è rimasto un solo sacerdote. Anche Paolo Dall’Oglio, il gesuita fondatore della comunità monastica di Mar Musa, ha dovuto abbandonare dopo trent’anni il romitaggio su un colle a nord di Damasco. Mentre laComunità di Sant’Egidio ha avviato un programma di assistenza ai profughi che si riversano nella capitale.
"Abbiamo cercato di non farci coinvolgere nel conflitto" dice a Panorama la deputata cristiana Maria Saadeh, eletta due mesi fa come indipendente nel parlamento con 104 mila preferenze. "Ma non è stato possibile. Molti cristiani emigrano per mettere in salvo la famiglia e i figli. Temono l’avvento di un regime islamico intollerante: lafine di un tessuto multireligioso che fa parte della nostra storia e che il governo laico siriano ha saputo salvaguardare. Abbiamo bisogno di più riforme, più democrazia, più lavoro, più istruzione. Non di una guerra fratricida".
Le prospettive non sono incoraggianti: il piano di Kofi Annan si è insabbiato, gli osservatori dell’Onu hanno sospeso le ispezioni e bivaccano al Dama Rose Hotel in attesa di istruzioni, una più incisiva azione diplomatica è fieramente osteggiata da Mosca, l’opposizione è divisa e priva di una credibile leadership politica, all’interno la società civile è silente e alla Casa Bianca si pensa soprattutto alle elezioni presidenziali del prossimo novembre. Il tempo, nonostante le defezioni nelle forze armate e il pesante bilancio di vittime nei ranghi dell’esercito, sembra ancora giocare a favore di Bashar.
"Qui non c’è più posto per me" lamenta George, studente di architettura, seduto al fresco della notte in un giardino recintato da capitelli romani nel vecchio quartiere cristiano di Bab Touma. "La mia generazione è fottuta. Abbiamo creduto nel sogno della libertà e delle riforme, volevamo una vita normale, e ci troviamo nel mezzo di una guerra che sta distruggendo il nostro futuro. Nei primi mesi delle proteste un compromesso era forse possibile, ora è tardi per una soluzione politica. La crisi è fuori controllo, non è più nelle nostre mani, e io ho deciso di andarmene: in Libano, in Europa, ovunque".
Non tutti hanno l’opportunità di espatriare. Yussuf Hawa, classe 1957, cristiano di Homs, aveva una buona posizione. Ingegnere geologo, era il supervisore delle trivellazioni per il colosso petrolifero Schlumberger nella regione di Deir Azzur: ottimo stipendio, auto di servizio, una quarantina di dipendenti siriani e americani. "Ho perso tutto" racconta in lacrime nello studiolo di padre Elias Zahlaoui, ottantenne sacerdote della chiesa cattolica di Nostra Signora di Damasco. "Abitavo nel quartiere di Hamidiya. Sparavano con i cannoni e sui tetti c’erano i cecchini con i lanciarazzi. Per un mese io, mia moglie e le due figlie siamo vissuti nella tromba delle scale, per ripararci dai proiettili. Avevamo solo un po’ di pane. Poi la nostra casa è stata colpita e siamo scappati qui a Damasco. Ieri ho fatto 10 chilometri a piedi per venire qui, dall’abuna Elias, a chiedere aiuto. Mi sento umiliato, non ho neppure i soldi per dare da mangiare alla mia famiglia".
Padre Elias è convinto che la libanizzazione della Siria in province su basi etniche e religiose sia l’obiettivo strategico convergente di Israele, della Turchia e dell’Arabia Saudita. Scrive lettere appassionate a Barack Obama, al Papa e a tutti i grandi della Terra per segnalare i rischi di una escalation militare in Medio Oriente e promuovere il dialogo tra le diverse culture. Nessuno gli ha mai risposto. E allora si dedica con tutta l’anima al coro giovanile interreligioso che ogni pomeriggio si esercita nella sua parrocchia. Anche se neppure lui può dire per quanto tempo ancora i bambini cristiani e musulmani canteranno insieme nella chiesa di Nostra Signora di Damasco.



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Vincent Van Gogh. La sofferenza e la solitudine tra cieli notturni e fiori di lillà Decrease Font Size Increase Font Size Text Size Stam...