martedì 24 luglio 2012

La guerra della Siria (8)


Siria, le dimissioni di Assad non ci saranno

La Lega Araba le richiede perché è convinta che il regime sia prossimo alla fine. E che Hezbollah per Assad non sia più un “passaporto” di popolarità. Ma il presidente vuole combattere fino alla fine


 di Anna Momigliano
La Lega Araba ha chiesto ufficialmente le dimissioni di Bashar al-Assad, il presidente siriano che da un anno e mezzo sta reprimendo le rivolte nel sangue. “Vi è un'intesa in favore di una dimissione rapida del presidente Bashar al-Assad in cambio di un'uscita sicura”, ha dichiarato Hamad Ben Jassam Al-Thani, il primo ministro del Qatar, il Paese che ha ospitato il summit dell'organizzazione che vanta 21 Paesi membri.La dichiarazione non era inaspettata, tuttavia indica che l'isolamento di Assad ormai è totale. Tra Siria e Lega Araba non è mai corso buon sangue fin dalla fine degli anni Settanta, quando l'allora presidente Hafiz al-Assad (padre di Bashar) pose fine a una storica alleanza con l'Egitto avvicinandosi sempre più all'Iran, nazione musulmana ma non araba, che con i vicini appartenenti alla Lega non intrattiene buoni rapporti. La Siria, che tecnicamente rimane un Paese membro, non prende più parte ai vertici dell'organizzazione dal novembre dello scorso anno.Le rivolte infatti hanno messo ulteriore distanza tra la Siria e le altre nazioni arabe, per due ragioni. La prima è che, a seguito delle rivoluzioni in Egitto, Tunisia e della caduta del regime in Libia, i capi di Stato e di governo sono cambiati: un tempo leader come Hosni Mubarak e Muammar Gheddafi (che pure non erano amici di Damasco), erano disposti a chiudere un occhio davanti alla repressione del regime siriano, temendo che anche i loro governi autoritari potessero cadere, ma adesso molti dei Paesi mediorientali sono guidati da una classe che è emersa proprio dalle rivoluzioni dello scorso anno, e dunque non teme più di tanto la volontà popolare. Inoltre dall'inizio della rivolta in Siria alcuni Paesi del Golfo, Arabia saudita e Qatar in testa, hanno sostenuto attivamente i ribelli: dal loro punto di vista, la caduta di Assad è un'occasione per trasformare la Siria da nemico ad alleato.Resta da chiedersi due cose: perché la Lega Araba ha chiesto soltanto adesso le dimissioni di Assad? E inoltre: questa richiesta avrà effetti concreti?Sono ormai mesi che gli Stati Uniti dicono apertamente che Assad deve andarsene, e non è un mistero che molte nazioni arabe la pensino allo modo: soprattutto Qatar e Arabia saudita, come si diceva prima, ma anche Egitto, dove al governo ci sono i Fratelli Musulmani, che sono anche una componente importante dei ribelli siriani. Tuttavia finora la Lega Araba aveva pesato bene ogni parola, perché voleva porsi come mediatore sopra le parti, tanto che aveva mandato anche osservatori sul campo.Inoltre i Paesi arabi non volevano correre il rischio di essere accusati di cedere alla “retorica occidentale.” Prima dell'inizio della ribellione, infatti, Assad poteva contare su una discreta popolarità nel mondo islamico grazie alla sua immagine di “difensore della resistenza” contro l'America e Israele. Uno dei suoi punti di forza consisteva nel sostegno a Hezbollah, il partito-milizia che ha inflitto dure perdite all'esercito israeliano nella guerra del 2006 e che probabilmente è responsabile della strage della scorsa settimana in Bulgaria.Se adesso i Paesi arabi si sentono liberi di chiedere apertamente le dimissioni di Assad, questo significa che sono convinti che il regime sia prossimo alla fine, e che oramai la carta della “resistenza” non ha più un valore, che Hezbollah non è più un “passaporto” di popolarità: del resto la stessa milizia islamica si è messa in una difficile situazione, schierandosi dalla parte del regime. A questo va aggiunto che l'Iran, principale sponsor del governo di Damasco, è uscito molto indebolito dalle Primavere arabe, che hanno creato un fronte relativamente compatto tra le nazioni mediorientali contro Teheran. Il punto, insomma, è che non solo la Siria è più sola che mai, ma anche che il suo “protettore,” ossia il regime iraniano, non fa più paura ai vicini arabi.Venendo alla seconda domanda, è difficile credere che Assad si dimetta sulla richiesta della Lega Araba e che accetti l'offerta di una “uscita sicura.” Già in passato, all'inizio delle rivolte, il Qatar aveva offerto di ospitare la sua famiglia (la moglie Asma, e i tre figli, ancora bambini), ma la cosa era caduta nel nulla. La scorsa settimana, un diplomatico russo aveva rilasciato un'intervista in cui sosteneva che il presidente siriano era “disposto a dimettersi, ma in maniera civile,” tuttavia il Ministero degli Esteri di Mosca aveva ritrattato subito.Assad a questo punto ha capito che il suo governo ha i giorni contati, ma pare deciso a morire con le armi in pugno. Questo potrebbe sorprendere alcuni osservatori, dopotutto, a differenza di altri tiranni come Saddam Hussein e Muammar Gheddafi, Bashar al-Assad non rientra nello stereotipo del “tiranno in divisa”: è una persona colta (prima di salire al potere faceva il medico), i suoi modi sono educati e pacati (chi l'ha conosciuto prima della crisi racconta che era persino una persona “gradevole”), ha vissuto in Occidente (ha persino operato in un'ospedale di Londra) e a differenza di Saddam e di Gheddafi non si fa vedere quasi mai con la divisa e men che meno con delle armi. Ma è anche un uomo molto orgoglioso, che vede la Siria come una sua proprietà personale ed è nel contempo convinto di essere l'ultima ancora di salvezza della sua nazione.Si racconta che sette anni fa minacciò Rafiq Hariri (l'allora primo ministro libanese, poi ucciso in un misterioso attentato) con queste parole: “Non metterti contro di me, perché se io cado, trascinerò il Libano all'inferno con me.” Ora Assad ha dimostrato di essere pronto a trascinare con sé non soltanto una nazione straniera, ma anche la sua stessa Siria.



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