martedì 27 novembre 2012

Restauri



Sta per essere ricollocata nella chiesa di San Francesco, dopo il lungo restauro all'Opd, la Madonna con Bambino in terracotta attribuita a Donatello

Citerna (Pg). Dopo un’assenza durata ben sette anni, il 30 novembre prossimo farà ritorno in Umbria, nella chiesa di San Francesco a Citerna dove era collocata, la splendida terracotta policroma della Madonna con Bambino attribuita definitivamente a Donatello. L’opera, che può essere annoverata tra i migliori esempi di scultura in terracotta policroma dei primi del Quattrocento, viene «notata» nel 2001 da Laura Ciferri, allora impegnata nella catalogazione di scultura in terracotta fra il XV e XVI secolo in Umbria. La studiosa rimane colpita dal manufatto, diverso rispetto agli altri esemplari da lei già analizzati per la sua ricerca e nel 2004, senza remore, effettua l’attribuzione a Donatello, poi condivisa da Corrado Fratini, Giancarlo Gentilini, Alfredo Bellandi e Arturo Carlo Quintavalle, con una datazione ascrivibile al periodo che va dal 1415 al 1420.

Sull’onda di questa attribuzione, l’opera arriva nel 2005 all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze dove ha inizio un complesso intervento di restauro che, dopo l’accertamento dell’esistenza della policromia originaria, porta all’eliminazione delle stratificazioni cromatiche posticce, applicate per ragioni legate al cambiamento di gusto piuttosto che al degrado della cromia originaria, e che ne avevano alterato completamente l’aspetto, in particolare l’espressione dei volti, compromettendo la leggibilità dell’opera.
Grazie al restauro, svolto nell’arco di sette anni, oggi è possibile apprezzare sia i valori cromatici che plastici della raffinata scultura, ancora legata al gusto del Gotico Internazionale per la preziosità e la ricercatezza della decorazione, ma decisamente orientata ai principi brunelleschiani. Le due figure sono indagate psicologicamente e rese con accuratezza di particolari, sia nelle delicate fisionomie che nella fine decorazione. Alta 114 cm e di 58 kg di peso, quindi facilmente trasportabile, la Madonna con Bambino è riconducibile alla tipologia di opere destinate alla devozione privata di famiglie benestanti o agli ambienti di culto ecclesiastici.
Il ritorno della Madonna con Bambino a Citerna sarà accompagnato da convegni e visite guidate, a cura delle restauratrici dell’Opificio, che avranno luogo dal 30 novembre al 2 dicembre (il programma è consultabile sul sito www.donatelloaciterna.it). Si segnala, in particolare, l’inaugurazione al pubblico il prossimo 30 novembre, alle ore 18, presso il salone degli Ammassi del Palazzo Comunale di Citerna, preceduta, alle ore 15, dalla presentazione del restauro. Interverranno per l’occasione Giancarlo Gentilini, docente di Storia dell’Arte moderna dell’Università degli Studi di Perugia; Laura Ciferri, storica dell’arte e, dall'Opificio delle Pietre Dure di Firenze, insieme con il soprintendente Marco Ciatti, la direttrice del Settore materiali plastici e vitrei Laura Speranza e Rosanna Moradei, funzionario restauratore conservatore; Monica Galeotti, funzionario chimico laboratorio scientifico; Akiko Nishimura, restauratore; Roberto Boddi, direttore Settore climatologia e conservazione preventiva.
L’opera sarà collocata nella chiesa di San Francesco, precisamente nella sagrestia destra rispetto all’altare maggiore, sottoposta a costanti controlli microclimatici al fine di garantire la corretta 



La Madonna col Bambino di Citerna, 1415-20, dopo il restauro. Foto: Opificio delle Pietre Dure, Firenze


Bellezze di Puglia (2)



Troia
rosone della cattedrale



Bellezze di Puglia (1)



Bisceglie
Chiesa di San Luigi (primi del XVI sec.)




sabato 24 novembre 2012

Recensioni (4)



Yves Michaud, Insegnare l'arte? Analisi e riflessioni sull'insegnamento dell'arte nell'epoca postmoderna e contemporanea.
Idea, 2010

di Dario Cecchi

La casa editrice Idea prosegue un’operazione meritevole di attenzione: la pubblicazione degli scritti del filosofo francese Yves Michaud. Spesso, quando si intraprende un discorso con un’affermazione così compromettente, si anticipa l’annuncio (o l’elogio) della pubblicazione o ripubblicazione di qualche classico del pensiero. Case editrici piccole ma importanti, come Aragno, ci hanno resi avvezzi a questo genere di imprese. Non è il caso di Idea con il suo autore Yves Michaud. Michaud è un filosofo vivente, insegna all’Università Paris I – i suoi interessi si dirigono in particolare all’estetica (perlopiù all’estetica contemporanea) – e ha alle sue spalle un’intensa attività di ricerca sull’empirismo inglese. Non si tratta certamente di una delle star del panorama filosofico francese: il suo discorso sul destino delle arti merita tuttavia attenzione.

La prima opera di Michaud tradotta da Idea recava il fortunato titolo di L’arte allo stato gassoso e ci conduceva in medias res, ossia nelle profonde trasformazioni che l’arte sta conoscendo nel corso degli ultimi due decenni, quando ormai sembra esaurirsi anche il discorso delle nuove avanguardie e della continua messa in discussione dei paradigmi dell’arte. L’arte ormai costituisce un discorso accessibile (e interessante) solo per gli addetti ai lavori e per i “cultori”: quel vasto “mondo dell’arte” che, a parere di chi scrive, stenta sempre di più a distinguersi dal mercato dell’arte. Tutte le categorie dell’estetica come teoria dell’arte (gusto, genio, creatività) o come riflessione filosofica (esperienza, rappresentazione, esemplarità) possono essere completamente revocate dall’arte contemporanea, che, nei casi migliori, mostra proprio l’inservibilità di questi concetti e istituisce un discorso autoreferenziale su se stessa, mentre, nei casi peggiori, semplicemente “va altrove”, scade spesso nel kitsch e nemmeno se ne avvede.

Questa critica può apparire eccessivamente feroce. Ma è probabilmente una critica che Michaud sottoscriverebbe. La critica dello stato dell’arte contemporanea non lo esime però da un’analisi concreta dei suoi meccanismi e delle sue dinamiche.

In questo testo Michaud si concentra sulle logiche che reggono l’insegnamento dell’arte. Parliamo ovviamente dell’avviamento alla “professione” di artista. Su questo punto si concentrano le critiche piuttosto attente e analitiche del filosofo francese: è possibile ricondurre l’attività artistica a un profilo “professionalizzante”? Non staremmo in questo modo riducendo le potenzialità intrinseche all’arte stessa, soprattutto nelle sue declinazioni contemporanee? E non è vero che lo stesso concetto di sperimentazione si sta trasformando in un know how da spendere nel mercato dell’arte? Michaud, a differenza di altri importanti studiosi e filosofi dell’arte, si concentra su questo punto: il mondo dell’arte, oltre che di critici e di mercanti, ha bisogno di professionisti che producono i “beni di consumo” adatti a questo mercato. Naturalmente l’attenzione di Michaud si concentra sulla Francia, dove il sistema delle Grandes Ecoles tenta di rispondere in modo innovativo ai bisogni e alle attese del mercato dell’arte.

Il saggio di Michaud ci lascia con un dubbio, che meriterà di essere approfondito (magari dallo stesso autore): questo esito dell’attività artistica era uno dei possibili, ma prevedibili, esiti dell’arte, dal momento in cui la modernità ha slegato l’arte dai suoi referenti tradizionali (la rappresentazione della fede religiosa, del potere politico) per consegnarla a una piena autonomia? L’artista come professionista è l’esito contemporaneo, legato anche a fattori come il consumismo e la volatilizzazione del sistema capitalistico, dell’artista come bohémien, figura romantica di creatore libero da ogni vincolo, di genio ispirato?

Filosofia contemporanea (4)








Il nuovo realismo e la sfida dell'esistenza

di Giacomo Pisani 
(Università degli studi di Bari)

L’incalzare della riflessione sul “nuovo realismo”, a livello nazionale, ci pone di fronte a questioni in cui è implicato il nostro stesso stare al mondo, costringendoci a rifuggire qualsiasi riduzionismo.


Il nuovo realismo di Ferraris (da qualche mese è uscito il “Manifesto del nuovo realismo”) sembra voler rilanciare la sfida col reale nella semplicità di uno schema che riduce gli oggetti in tre classi: gli oggetti naturali, esistenti nello spazio e nel tempo indipendentemente dai soggetti; gli oggetti sociali, la cui esistenza nello spazio e nel tempo dipende invece dai soggetti stessi; e gli oggetti ideali, che esistono fuori dello spazio e del tempo indipendentemente dai soggetti. Ora, per Ferraris, il disincanto dall’illusione postmodernista, che affermando che “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, ci ha esposti al populismo e al negazionismo, passa attraverso il ritorno all’evidenza degli oggetti naturali. La costituzione di questi ultimi costituisce l’ “inemendabile”, che eccede qualsiasi costruzione categoriale. L’indipendenza dell’oggetto rispetto agli schemi del soggetto e, in generale, della epistemologia, costituisce dunque un criterio di oggettività che resiste a qualsiasi tentativo di interpretazione e di falsificazione.

Sull’ oggettività del mondo reale, a cui è possibile corrispondere in termini veritativi, poggia la giustizia. Dunque, quest’ultima si fonda, in ultima analisi, sulla verità. L’esistenza stessa della scienza e della giustizia deriva, per Ferraris, dalla sussistenza di un mondo reale le cui leggi sono indifferenti alle nostre volizioni e cogitazioni. E a coloro che affermano che la discussione intorno all’esistenza degli oggetti fisici è in fin dei conti superflua rispetto all’esistenza, per la quale contano ben altre cose (i cosiddetti “benaltristi”), Ferraris risponde che le valutazioni hanno ad oggetto i fatti e che i fatti avvengono in un mondo di oggetti. Quindi è impossibile introdurre una discontinuità fra fatti fisici e fatti storici. Ma subito dopo è lo stesso Ferraris ad introdurre una demarcazione di questo genere, affermando che il compito della filosofia è di capire quali oggetti siano costruiti e quali non lo siano, decostruendo la tesi secondo la quale tutto è socialmente costruito.

Ma come è possibile distinguere gli oggetti naturali da tutto ciò che è socialmente costruito? Ogni oggetto è inserito costitutivamente all’interno del progetto del soggetto che lo prende in considerazione, divenendo un elemento essenziale delle possibilità in cui tale progetto consiste. La stessa considerazione che si prefigge di prendere in esame un oggetto nella sua materialità oggettiva, consiste in un determinato progetto in cui viene a collocarsi l’oggetto. Per questo, è impossibile staccare la costituzione di quest’ultimo dalla prospettiva in cui esso si dà in tal modo, pena il ricadere in una visione astratta che ignora il rapporto dialettico in cui soggetto e oggetto si relazionano. Tale argomento non è presente solo nell’idealismo tedesco, in Marx e in Heidegger, ma anche nella tradizione idealista italiana. Illuminanti sono le pagine di Gentile sulla prassi in “La filosofia di Marx”.

Ecco cosa induce Markus Gabriel, il giovane realista introdotto in Italia da Ferraris, a dire che l’oggetto si dà in campi di senso, e che, più in generale, “tutto ciò che esiste, esiste perché c’è un campo di senso”, tornando a far dipendere, come fa notare Ferraris nella prefazione de “Il senso dell’esistenza”, l’ontologia dall’espistemologia.

Ma tale argomento, come quello della fatticità del senso, non contraddice le tesi postmoderniste, che non si rifanno al soggetto trascendentale kantiano o addirittura al soggetto cartesiano, additati da Ferraris per criticare il presunto costruttivismo postmodernista.

Il soggetto heideggeriano, come il soggetto di Vattimo e di buona parte della tradizione postmodernista, non è il soggetto trascendentale che costruisce la forma oggettiva del mondo esterno per mezzo delle categorie a priori del proprio intelletto. Il soggetto postmoderno è costitutivamente esposto all’essere, è gettato all’interno di un orizzonte storico che costituisce l’apertura di senso del mondo. Quest’ultimo si dà in significati che rimandano essenzialmente all’esistenza, traducendosi in possibilità e articolandosi dunque nelle trame dei nostri progetti. Ecco perché il reale è in rapporto diretto con la storia e, per quanto inaggirabili, le resistenze che esso ci oppone si danno nella nostra apertura al mondo.

La stessa considerazione dei fatti storici, che Ferraris intende come un atteggiamento “neutro”, da premettere comunque a qualsiasi critica, è già sempre una “scelta”, nella vita effettiva, di qualsiasi fatto all’interno di una rete di progetti che costituisce la stoffa della nostra esistenza, come ben spiega Sartre quando parla de “Il mio passato” in “L’essere e il nulla”.

La sfida del reale, allora, è eminentemente dialettica e non ammette riduzioni. Fondare la verità su una determinata visione degli oggetti deriva dalla mancata assunzione della storicità delle possibilità che a tale oggetto ineriscono. Possibilità che non sono infinitamente manipolabili, come l’estetizzazione postmoderna può farci credere, perché si radicano nell’identità di ciascuno, che è in relazione con lo spazio comunitario e con l’orizzonte di senso a cui è legato. Qui la posta in gioco è altissima. L’assorbimento entro le possibilità pre-costituite nel mondo determina infatti l’assolutizzazione del rapporto, essenzialmente dialettico, fra il soggetto e la realtà, annullando la possibilità di farsi carico delle esigenze degli individui oppressi da tale configurazione dell’essente.

L’estetizzazione postmoderna ha sì, come dice Ferraris, disperso i soggetti entro una dimensione pubblica in cui sono divenute impossibili le scelte, e che è spesso divenuta facile preda del populismo mediatico. Ma ciò è derivato proprio dalla neutralizzazione degli spazi, che ha reso impossibile assumere la storicità delle condizioni e ha piuttosto addomesticato nell’indifferenza le soggettività, rinsaldando i rapporti di potere. Ma la sfida che i problemi reali ci oppongono esige che qualsiasi facile riduzionismo venga rifuggito, e che ad essere preso in esame sia il nostro stesso rapporto con gli oggetti. Il nostro stare al mondo, esponendoci fin nel profondo alle cose, è implicato in questa sfida, che è la sfida dell’esistenza.


giovedì 22 novembre 2012

Filosofia contemporanea (3)



Il carattere trascendentale del filosofare
di Gabriele Zuppa

La filosofia è elemento primo, trascendentale, che non ammette niente che proceda dal suo esterno, ché la filosofia è la dialettica stessa, la relazione essenziale tra il nostro essere e il mondo. La filosofia è storicamente ed essenzialmente il riferimento dell’uomo con se stesso e con il mondo. Ogni dire, qualsiasi dire, è filosofico. La filosofia non è innanzitutto qualcosa che si fa o si studia o per la quale ci si decide, ma è ciò in virtù della quale si fa, si studia e si decide. Ogni proposizione è filosofica, perché non esistono proposizioni isolate, ma ciascuna di esse è alimentata dalla propria relazione con le altre e ciascun pensiero, per quanto minimo, è dialettico: la sua origine è dialettica, essendo già risultato, non di un lungo ragionare, ma anche solo del confronto, di un essere l’uno di fronte all’altro di due diversi istanti successivi. Il trarre le conseguenze non è qualcosa che si decida ma è qualcosa che avviene. Il «perché» non è un lusso che possiamo concederci ma è ciò che lega donando il senso. [...]

In ogni istante traiamo conclusioni da ciò che viviamo, da ciò che esperiamo e queste a loro volta sono gli elementi sui quali conduciamo le successive riflessioni a venire. Dove ancora il riflettere, il calcolare, il ponderare - in una parola: il pensare - non è qualcosa che ad un certo punto ci proponiamo di fare, ma è ciò che da sempre accompagna ogni fare ed ogni dire. La razionalità non è qualcosa dalla quale ci si possa sottrarre: ogni comportamento è anch’esso razionale o irrazionale, coerente o incoerente, o più o meno razionale, o più o meno coerente. Questo perché, se da tutta la nostra più razionale razionalità trasuda la nostra sensibilità, parimenti la razionalità è elemento essenziale nella dinamica della vita nel modo in cui siamo andati analizzandola. L’essere che noi siamo, il nostro stato abituale, la nostra disposizione, le passioni che noi siamo sono ciò in cui il nostro pensare è indirizzato, è ciò da cui ha origine e ciò a cui ritorna. Il pensiero nella sua forma dialettica ci appartiene essenzialmente già prima che esso ci stia innanzi nelle sue formulazioni. Esso è già contenuto nelle passioni che noi siamo ed è modalità essenziale del procedere del nostro essere verso se stesso, dell’esprimersi di ciò che noi siamo. Che esso venga esplicitato e prenda forme cristalline nel suo processo di razionalizzazione non esclude che sia già sempre presente latente in ciò che noi facciamo e siamo.
La razionalità è dunque una razionalizzazione. Ragionare non è altro che esplicitare ciò che è già contenuto nelle esperienze e nei concetti che le rappresentano. Ragionare è dare forma e intelligibilità a ciò che prima ancora non l'aveva. E questo processo ottiene il suo risultato, l’intelligibilità, attraverso una riformulazione, una sistematizzazione dell’apparato concettuale dal quale si era partiti. Ma è chiaro che questo dipende dalle esigenze di ciascuno e la ricerca e il ragionare si fermeranno là dove si sarà raggiunto il grado di intelligibilità funzionale all’esigenza stessa. Non avviene però che innanzitutto e per lo più ci si riprometta di pensare, questo semplicemente accade. E siccome questi concetti portano con sé un’intera rappresentazione del mondo, perché le relazioni che li caratterizzano sono tali in quanto relazioni nel mondo e del mondo, questa ricerca è una ricerca che ha a rigore come termine ultimo il mondo, tutto ciò che è, da cui ogni parte dipende.
Ogni ricerca è dunque filosofica, anzi il nostro stesso essere al mondo, in quanto relazione al mondo, ha come elemento costitutivo essenziale una apertura incipientemente filosofica, che lo si sappia o meno. Ogni indagine è filosofica perché non può prescindere dalle rappresentazioni del mondo che ogni concetto porta con sé.


ZUPPA, Gabriele, Esprimersi ed essere. Saggio sul nichilismo e la crisi dei valori, Il Filo, Roma 2008, pp. 110-113


http://www.centroattivamente.com/

L'arte moderna secondo Meyer Schapiro





L’ARTE MODERNA
di Meyer Schapiro

I

L’evento decisivo, la svolta dell’arte americana chiamata Armory Show, fu il seguente. Nel dicembre 1911 alcuni artisti americani, scontenti delle mostre esclusive della National Academy of Design, costituirono una nuova associazione, l’American Association of Painters and Sculptors, per poter esporre piú liberamente, senza giuria né premi. I fondatori non appartenevano a una determinata scuola artistica; non pochi avevano esposto alla stessa National Academy. Si associarono non tanto in opposizione all’estetica dell’Accademia (benché spirasse al loro interno un vento modernista), bensí per una comune esigenza professionale: creare, per dir così, un mercato piú aperto, un luogo di esposizione accessibile agli artisti non accademici e non ancora affermati. Gli elementi piú attivi della nuova associazione erano artisti giovani e avanzati, ma non i piú avanzati, che, in quel momento, sembra fossero poco interessati a mostre e associazioni. Questo scopo precipuo dell’Associazione fu presto messo in secondo piano da un evento probabilmente imprevisto dai suoi stessi fondatori. La prima mostra, progettata come una grande esposizione della pittura e scultura americane presso l’«Armory» [«Armeria»] del Sessantanovesimo Reggimento a New York – mostra ispirata da una rinnovata fiducia degli artisti americani nell’importanza della propria opera e dell’arte in generale – si trasformò in una mostra internazionale, nella quale le pitture e le sculture europee si rivelarono assai piú interessanti di quelle americane, che ne furono eclissate. Il mutamento nel programma della Mostra fu dovuto al presidente, Arthur B. Davies, che ebbe l’idea di esporre anche alcune opere europee recenti. Recatisi all’estero a tale scopo, Davies e il suo collaboratore Walt Kuhn furono cosí colpiti dalla nuova arte europea, a loro quasi sconosciuta, e dalle grandi esposizioni nazionali e internazionali dei più recenti movimenti artistici tenutesi nel 1912 a Londra, Colonia e Monaco, che riportarono dall’Europa molte piú opere di quante in un primo tempo fossero previste. Furono insomma come sommersi dalla marea montante dell’arte d’avanguardia e, al di là dei loro intenti originari, si avventurarono in un’impresa che non erano in grado di controllare: la loro stessa opera, pur non essendo accademica, fu soverchiata dalla nuova arte. Nel grande pubblico che visitò la Mostra a New York, Chicago e Boston nella primavera del 1913, la pittura e la scultura straniere suscitarono reazioni estremamente disparate: dall’entusiasmo e la curiosità per la novità, fino all’insofferenza, al disgusto e alla rabbia. Per mesi, giornali e riviste pubblicarono una gran quantità di caricature, satire, fotografie, articoli ed interviste sull’arte d’avanguardia europea. Allievi delle scuole d’arte bruciarono l’effigie di Matisse; si verificarono persino episodi di violenza, e a Chicago la Mostra fu oggetto di inchiesta da parte della Vice Commission, in seguito a denuncia di uno scandalizzatissimo paladino della morale. La Mostra fu scioccante per la stessa associazione di artisti che l’aveva patrocinata, e molti membri sconfessarono l’avanguardia e si dimisero: fra questi, pittori come Sloan e Luks, considerati fino al giorno prima i ribelli dell’arte americana.
A causa di forti contrasti interni, l’Associazione si scioglierà poco dopo, nel 1914. L’Armory Show fu la sua unica mostra. Successivamente, per anni, la Mostra fu ricordata come un evento storico, momento culminante di rivolta artistica. Essa stimolò giovani pittori e scultori, prospettò loro possibilità impensate; creò nel vasto pubblico un’immagine nuova della modernità. Fece sí che molti prendessero coscienza del fatto che nell’arte si era appena verificata una rivoluzione, e che gran parte di quanto avevano ammirato nell’arte degli ultimi decenni era di valore dubbio, fuori moda, destinato a un rapido declino. Nel volgere di breve tempo, la nuova arte europea rivelata dall’Armory Show diventò, negli Stati Uniti, il modello dell’arte.
Sulla scia del grande interesse suscitato dalle opere straniere, si è portati ad esagerare l’effetto dell’Armory Show sull’arte americana. È comunque certo che lo sviluppo successivo dell’arte e del gusto del pubblico fu determinato da molteplici fattori al di là della pura e semplice Mostra; sebbene resti poi molto difficile valutare partitamente l’influsso di ciascuno di essi. È anche possibile che, senza l’Armory Show, l’arte contemporanea e le nostre idee sull’arte sarebbero oggi esattamente le stesse. Già da qualche anno, in precedenza, si era avuto a New York un crescente interesse per la nuova arte europea; interesse coltivato e stimolato soprattutto da Alfred Stieglitz, pioniere della fotografia artistica, nella sua galleria «291»; qui vennero esposte opere di Rodin, Lautrec, Matisse e Picasso, e di giovani americani (Weber, Maurer, Marin e Hartley) che erano stati all’estero ed avevano assimilato l’arte nuova.
Per l’intero secolo xix pittori e scultori americani si erano recati in Europa a studiare, e i migliori avevano assimilato la lezione delle opere europee contemporanee.
All’Armory Show erano presenti quadri di parecchi artisti che appartenevano alle moderne correnti europee.
Dal 19o8 si erano tenute a New York mostre di artisti raggruppatisi sotto l’etichetta di «indipendenti»; la loro produzione non era cosí d’avanguardia come quella che si poteva vedere nella galleria di Stieglitz; contribuí tuttavia a preparare il pubblico e i giovani pittori all’arte piú avanzata. E soprattutto, sebbene non sia facile dimostrarlo, le condizioni che avevano portato alla creazione di una nuova arte in Europa si stavano realizzando anche negli Stati Uniti. Ciò cui si appellava la nuova arte coincideva con la tendenza a una maggiore libertà presente in numerosi campi. La pittura moderna, infine, soddisfaceva un’esigenza ugualmente avvertita in architettura, letteratura, musica e danza.
In questo processo già in atto, l’Armory Show segna un momento di accelerazione, e può interessare tanto il sociologo quanto il critico d’arte il fatto che un singolo evento, all’interno di una lunga serie analoga, acquisti rilevanza sociale perché diffonde presso un pubblico piú vasto quanto di solito concerne soltanto un gruppo ristretto. L’ampiezza e il carattere improvviso di questa uscita allo scoperto della nuova arte fecero sí che stimolasse le persone sensibili assai piú di quanto avrebbero potuto fare una dozzina di piccole mostre. La Mostra, che giungeva in un momento di grande fermento dell’arte europea, liberò il pubblico dalle ristrettezze di un compiaciuto gusto provinciale e lo costrinse a valutare l’arte americana sulla base di uno standard mondiale. Gli anni tra il 191o e il 1913 furono l’epoca eroica durante la quale si verificarono le innovazioni piú stupefacenti; fu allora che vennero creati i modelli fondamentali dell’arte del successivo quarantennio. Rispetto al rinnovamento artistico di quel periodo, quello odierno dà l’impressione di rallentamento e ristagno. Intorno al 1913, pittori, scrittori, musicisti e architetti si sentirono a un punto di svolta epocale che corrispondeva a un mutamento altrettanto decisivo nel pensiero filosofico e nella vita sociale. Questo sentimento di cambiamento imminente ispirò una rivolta generale, un’attesa di grandi eventi. Gli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale furono costellati di nuove associazioni di artisti, di grandi progetti, di manifesti arditi. Il mondo dell’arte non aveva mai conosciuto un simile desiderio d’azione; una sorta di militanza che conferiva alla vita culturale la caratteristica di un movimento rivoluzionario o di una nuova religione. 

  
Alfred Stieglitz, Venetian Canal (1894) 

La guerra della Siria (14)


Siria, 40mila morti in 20 mesi Bombe vicino ospedale di Aleppo: 15 vittime


Gli aerei di Assad bombardano un edificio vicino all'ospedale cittadino. Un nuovo conteggio dei morti porta a 40mila le persone uccise dall'inizio del conflitto. 36 i giornalisti, un record negativo per Damasco, prima nella tragica classifica




L'ultimo di una serie di bombardamenti lanciati dall'aviazione di Damasco colpisce pesantemente un edificio vicino all'ospedale di Aleppo, nel nord della Siria.
Profugo vi
La clinica, che nei mesi scorsi è già stata più volte bersagliata dagli attacchi aerei, in passato era di proprietà di un imprenditore vicino al presidente Assad.
L'ultimo attacco - secondo Rami Abdul-Rahman, direttore dell'Osservatorio siriano per i diritti umani - ha causato non meno di 15 vittime. Undici di queste sarebbero combattenti ribelli, ma tra i morti ci sarebbero anche una ragazzina e due bambini. A poco più di 500 metri dal fronte dei combattimenti, l'ospedale e l'edificio colpito oggi si trovano in un quartiere di Aleppo pesantemente colpito dalle bombe.

40mila vittime: strage di civili e giornalisti

L'Osservatorio ha aggiornato oggi anche il bilancio del conflitto in Siria. Negli ultimi venti mesi sarebbero state uccise 40mila persone. Più di 28mila (28.026) i civili colpiti dagli scontri tra lealisti e ribelli.
Secondo l'Ipi (International Press Institute), tra le vittime del conflitto - dal 2012 ad oggi - ci sono anche 36 giornalisti. La cifra fa della Siria lo stato attualmente più pericoloso per i professionisti dell'informazione, più della Somalia e di Messico, Pakistan e Filippine. Nell'ultimo anno i reporter uccisi sono stati 119. Un numero così elevato non si registrava dal 1997.

Confine con la Turchia: curdi e ribelli

Ras al-Ayn, città siriana al confine con la Turchia, continuano le tensioni tra i ribelli e i combattenti curdi, giudicati da quanti si oppongono al regime di Assad solidali con il regime. Nella stessa zona si trovano in questo momento tanto le forze vicine al fondamentalismo islamico, compresi gli uomini di al-Nusra, quanto miliziani del Comitato di protezione del popolo curdo (Ypg), che altro non è che il braccio armato del Partito dell'Unione democratica curda (Pyd). A sua volta il Pdy è il "distaccamento" in Siria del Pkk del Kurdistan.

Al momento - secondo uno spettro della situazione che ancora una volta fornisce l'Osservatorio siriano - ribelli e curdi si sarebbero divisi il controllo della città. A nord ed est il controllo è affidato ai curdi, circa 400, mentri a sud e ovest il comando è affidato ai gruppi ribelli fondamentalisti.


www.ilgiornale.it 

Filosofia contemporanea (2)


Cosa significa dialogare con (il discorso di) Emanuele Severino?


Marco Simionato
“Cosa significa dialogare con (il discorso di) Emanuele Severino?”
Breve resoconto del convegno tenutosi a Venezia, il 29 e 30 maggio, presso la sede di ca’ Dolfin dell’Università ca’ Foscari, dedicato al pensiero di Emanuele Severino dal titolo "Il destino dell’essere".


La domanda di uno dei relatori del convegno, nonché allievo della prima generazione di Severino, ossia Luigi Vero Tarca (domanda che riprendo nel titolo dell’articolo) poneva il tema centrale della possibilità/impossibilità di obiettare al discorso di Severino: discorso che si propone come innegabile, non perché sia il “suo” discorso” (e dunque non per motivi di autorità, di competenza, o di superiorità di qualsivoglia tipo), ma perché esso testimonia il cuore della verità che chi nega per ciò stesso è costretto a riaffermare.
Scrive Severino nelle prime battute della sua opera fondamentale, La struttura originaria: «Alla struttura originaria compete [...] quanto Aristotele rilevava a proposito del principio di non contraddizione: che la sua stessa negazione, per tenersi ferma come tale, lo deve presupporre. Sì che ad un tempo lo nega e lo afferma: lo nega in actu signato, e lo afferma in actu exercito, e quindi, proprio perché insieme lo afferma e lo nega, non riesce a negarlo» (E. Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 20042, p.107).

Più specificamente, la struttura originaria nel lessico di Severino consiste nella relazione di due ambiti semantici: l’immediatezza logica e l’immediatezza fenomenologica, dove ‘immediato’ significa che non ha bisogno di alcuna mediazione, dimostrazione, o altro, per essere affermato, poiché esso appare di per se stesso come innegabile. In breve – e semplificando - l’immediatezza logica è l’identità e la incontraddittorietà (ma i due aspetti sono inscindibili) dell’ente in quanto ente, ossia l’impossibilità che l’identico sia diverso da sé e che i diversi siano identici; l’immediatezza qui risiede nel fatto che, se si affermasse l’identità dei diversi (e dunque la verità della contraddizione), proprio per affermare ciò sarebbe necessario che i diversi, posti in identità, fossero originariamente pensati e posti come diversi, riaffermando così la diversità dei diversi che si intendeva negare. L’immediatezza fenomenologica è «l’immediatezza dell’apparire dell’ente che appare, in quanto è ciò che appare». Severino riassume anche nel modo seguente: «[...] l’immediatezza del nesso tra i significati (= cose significanti = significare delle cose = enti) è posta come immediatezza ‘logica’ (la logicità, il logo, essendo appunto il nesso tra i significati) [...]. L’immediatezza della notizia, ossia dell’apparire delle varie forme di nessi che uniscono i significati, è chiamata immediatezza ‘fenomenologica’» (La struttura originaria, cit., p.17).
Sul fondamento di questa struttura, chiamata da Severino anche «verità» o «struttura originaria della verità», egli sviluppa la “sua” filosofia. Tutte le tesi possono essere criticate, seguendo la premessa, solo se prima si siano fatti i conti – per così dire – con la struttura originaria, e dunque con un gruppo di affermazioni che sono innegabili.

Ritorniamo così alla domanda del titolo: cosa significa dialogare con (il discorso di) Emanuele Severino? A tal proposito, Severino stesso ha risposto, in certa misura, intervenendo al convegno, dove ha ricordato che «l’obiettare contro la struttura originaria [nel senso indicato sopra] è un incominciare ad essere d’accordo con la struttura originaria», poiché chi vuole obiettare – se vuole davvero avanzare una obiezione – deve differire da ciò rispetto a cui obietta, e in ciò sta appunto la riaffermazione della struttura originaria stessa, cioè il riconoscimento della differenza dei differenti, che è – appunto – «il contenuto primario della struttura originaria».
Detto questo, dialogare con il discorso di Severino – o, in altri termini, con la struttura originaria - risulta assai peculiare: se il dialogo è tale per cui viene condotto dal di fuori di essa, cioè a partire da un “luogo” esterno, allora esso è impossibile, o meglio: sussiste solo come insignificante, dove persino quell’insignificanza, significando se stessa e non altro, appartiene (come negata) al luogo del significare originario, e dunque alla verità stessa. Chi dunque si avvicina alla struttura originaria volendo saggiarne la fondatezza, o volendo mostrarne la falsità, è destinato ad essere inglobato in essa...anzi, è destinato a “scoprire” che già da sempre la sua “valutazione” sulla stabilità della struttura poggia su questa stessa. Non c’è spazio per un dialogo nel senso di uno scambio tra due termini l’uno esterno all’altro: se uno dei due è la verità, l’altro, l’errore, esiste solo come negato e il suo contenuto è nullo (e persino il nihil absolutum sta nella verità, come negato. Si veda a proposito del nulla e dell’aporia ad esso connessa la soluzione proposta nel cap. IV de La struttura originaria).

Gli interventi che si sono susseguiti al convegno menzionato sopra rispecchiano a grandi linee i modi in cui il pensiero può avvicinarsi al contenuto del discorso severiniano; quei modi in cui – di fatto – la comunità filosofica si è storicamente confrontata con esso. Certo, ogni filosofo o pensatore ha il proprio atteggiamento teoretico, i propri presupposti di fondo, i propri punti di interesse; ma – parlando in termini generali – credo si possano individuare tre atteggiamenti nei confronti della filosofia di Severino.

Il primo consiste nel cercare di mostrare la falsità, o perlomeno la possibilità della falsità, delle tesi di fondo dell’ontologia del filosofo bresciano o di alcune di esse. È il caso, ad esempio, dell’intervento di Enrico Berti, dove viene criticata la riduzione severiniana della molteplicità delle determinazioni all’unico senso dell’essere inteso come negazione del nulla. Oppure ricordo l’intervento di Mauro Visentin volto a mostrare l’impossibilità di porre in sintesi incontraddittoria l’immediatezza logica e l’immediatezza fenomenologica. Infine segnalo gli interventi di Salvatore Natoli, che conclude sottolineando come la logica severiniana sia vera solo per quel che riguarda le parole, laddove le cose seguono un diverso corso; e quello di Mario Ruggenini, secondo cui anche il discorso di Severino – come qualsiasi altro – non può pretendere di essere verità assoluta, dovendo fare i conti con i limiti del linguaggio.
Il secondo modo di accostarsi a Severino consiste nel rileggere certi momenti della storia della filosofia, a partire dalla sua ontologia, accettata in pieno come fondamento per comprendere la storia del pensiero (e delle azioni) dell’Occidente. È il caso, ad esempio, degli interventi di Giorgio Brianese e di Davide Spanio che hanno posto in relazione la proposta teoretica di Severino rispettivamente con la filosofia di Spinoza e di Gentile.
Il terzo modo è rappresentato da un confronto con le tesi severiniane in merito al cosiddetto mondo della “vita” e della “storia”: la tecnica, la società, la politica, etc. Ricordo a questo proposito l’intervento di Irti, in merito al tema del rapporto tra tecnica e diritto.

Questi tre atteggiamenti filosofici nei confronti del discorso di Severino vanno incontro a quanto già indicato sopra: l’inevitabile fagocitazione all’interno della verità della struttura originaria: se dicono qualcosa di compatibile con essa, i contenuti dei dialoganti possono sussistere positivamente; se dicono qualcosa di diverso o incompatibile, essi sono tenuti all’interno della verità come negati (o il loro contenuto, di fatto, è un nulla assoluto). Certo, tutto ciò semplificando e generalizzando al massimo; ma il senso e il destino del dialogo con il discorso di Severino credo possa essere riassunto così.

A questo punto – si dirà – è perfettamente inutile dialogare con la filosofia di Severino, nella misura in cui o si viene a dire lo stesso, oppure si dice altro che – in quanto altro dalla verità – è irrimediabilmente sbagliato e dunque inutile alla conoscenza. Tuttavia, Severino stesso avverte che «ogni possibile negazione, ogni possibile critica della struttura originaria appartengono a questa struttura, nel senso che la verità è essenzialmente negazione dell’errore e tale negazione è tanto più concreta quanto più l’errore si manifesta in modo potente e concreto» (prefazione a M. Simionato, Nulla e negazione. L’aporia del nulla dopo Emanuele Severino, Pisa University Press, 2011, p. 9).
Ma egli ricorda anche che questo accrescimento della concretezza della verità non è un aumento di innegabilità della verità: non c’è un percorso in cui, via via, l’innegabile si mostra sempre più innegabile. Se l’innegabile è tale, lo è originariamente e immediatamente, non ad un certo punto o mediante qualsivoglia processo.
L’utilità del dialogo con il discorso di Severino risiede insomma nella possibilità di accrescere l’errore, dimodoché l’originaria negazione di esso da parte della verità sia sempre più grande, tanto più è grande, articolato ed elaborato ciò che essa nega.

Ritengo tuttavia che si possa individuare una ulteriore strada di dialogo con la filosofia di Severino e che consiste nel ridire lo stesso – la stessa verità originaria – con parole diverse. È il caso – credo – dell’intervento di Luigi Vero Tarca, che dichiara di non voler obiettare nulla al discorso severiniano, ma di ripensare il senso della (parola) differenza e della (parola) negazione. In tal modo si accrescerebbe il lato della verità non indirettamente, ossia rendendo più grande l’errore che la verità nega, bensì direttamente, cioè testimoniando la verità originaria con altre parole, dove l’alterità non sia un dire altro dal discorso di Severino, ma un dire lo stesso in altro modo.
La domanda che pongo, a conclusione di questo breve articolo, è la seguente e rimane volutamente aperta e senza risposta: ri-dire il discorso severiniano, ossia dirlo in altro modo, lascia davvero inalterata l’ontologia di Severino e il suo rapporto con il mondo della “vita”?

Filosofia contemporanea (1)


Gadamer. Il linguaggio dell'essere
di Michele Lasala


Tutta la riflessione di Gadamer ( Marburgo, 1900 – Heidelberg, 2002 ) ruota intorno ad un tema: l'esperienza di verità; e l'opera in cui maggiormente è sviluppato tale oggetto di speculazione è Verità e metodo ( 1960 ). Secondo Gadamer, esiste un modo per giungere alla verità delle cose diverso da quello adottato dalla scienza, ovvero diverso dal metodo scientifico moderno, ed è quello dimostrato da tutte quelle esperienze che l'uomo fa: le esperienze di verità.Queste esperienze dicono dell'uomo, del suo essere storico, della sua condizione contingente, della sua natura; e questo perchè l'uomo facendo esperienza di qualche cosa perviene via via all'autocomprensione, a comprendersi, a interpretarsi. In altri termini, l'uomo giunge alla sua verità, ma allo stesso tempo alla verità dell'essere. Anzi, giunge all'essere. Tutto questo grazie a esperienze extrametodiche. Quando l'uomo fa esperienza di qualcosa viene coinvolto in una situazione che gli è data; in una situazione che egli non ha determinato da sé. Ed è per questo che l'uomo viene preso dal dato, dal fatto empirico, dalla cosa. Viene catturato, si potrebbe dire. Per capire questo fenomeno genuinamente ermeneutico ( perchè è qui che l'uomo giunge alla comprensione di sé, seppur non definitivamente compiuta una volta per tutte ), basta pensare a ciò che avviene nella sfera estetica, e in particolare davanti a un'opera d'arte. Quando l'uomo fa un'esperienza estetica di questo tipo, quando cioè è davanti a un quadro ( che abbia rilevanza artistica ) si modifica, o meglio è la sua coscienza che viene modificata, e viene modificata grazie alla comprensione-interpretazione dell'oggetto artistico. Detto diversamente: la coscienza viene modificata nella conoscenza. Secondo  Gadamer, ciò è possibile solo presupponendo un medium tra l'io e la realtà , tra la coscienza interpretante e l'oggetto interpretato. Questo medium, questo strumento è il linguaggio.Il linguaggio che noi parliamo è l'espressione più schietta della nostra cultura, della nostra storia, della nostra identità: esso è tradizione. Da qui il paradosso di un linguaggio che non viene parlato, ma che parla a noi, ci parla e dice del nostro essere storico, finito, contingente. Il linguaggio non è solo quello verbale, ma può assumere varie forme; forme che esprimono la tradizione entro cui l'interprete si colloca.
Gadamer scrive, sempre in Verità e metodo:
"Il linguaggio è un mezzo in cui io e mondo si congiungono, o meglio si presentano nella loro originaria congenerità: è questa l'idea che ha guidato la nostra riflessione. Abbiamo anche messo in luce come questo mezzo speculativo del linguaggio si presenti come un accadere finito in contrasto con la mediazione dialettica del concetto. In tutti i casi analizzati, sia nel linguaggio del dialogo come in quello della poesia e anche in quello dell'interpretazione, ci è apparsa la struttura speculativa del linguaggio, che consiste nel non essere un riflesso di qualcosa di fissato, ma un venire all'espressione in cui si annuncia una totalità di senso". 

Grazie al linguaggio l'uomo interpreta e comprende, e allo stesso tempo viene compreso e interpretato dall'oggetto che ha di fronte, sempre attraverso il medium linguistico.
L'esperienza estetica fa sì che l'uomo si elevi alla comprensione della sua coscienza in maniera per così dire immediata, intuitiva. Tuttavia tale comprensione – lo si è già accennato – non è mai definitivamente compiuta, ma è il presupposto per un nuovo tendere verso una nuova esperienza di verità, in cui l'uomo possa ancora una volta attuare quel processo si autocomprensione del suo essere, che rimane pur sempre nascosto dietro le cose e nelle esperienze.Il problema che Gadamer solleva in Verità e metodo è un problema di carattere filosofico, e muove dalla questione kantiana che si esprime nella domanda: sono possibili giudizi sintetici a priori? La questione gadameriana, invece, riguarda la possibilità del comprendere. Gadamer si chiede: è possibile il comprendere?Secondo Gadamer, il comprendere è insito nella vita stessa dell'uomo, anzi è la vita stessa dell'uomo, vista come un continuo e ininterrotto tendere verso la comprensione della realtà. La vita dell'uomo è, quindi, pura ermeneutica; e l'uomo stesso è un essere ermeneutico.Si evince da qui che Gadamer concepisce l'ermeneutica non più come una disciplina tecnica, come un insieme di regole da applicare a un testo, a un oggetto qualsiasi; non più come la intendeva Schleiermacher. L'ermeneutica è la vita stessa dell'uomo.




Hans-Georg Gadamer 

Letteratura serba del Novecento (2)






Miodrag Pavlovic


Il bosco della maledizione


Il bosco della maledizione
il vessillo del crepuscolo
i destini vanno
a dormire

Mucchi di cadaveri
galleggiano sotto la terra
nomi dimenticati
hanno i germogli di pietra

Giorni perduti
soli sparsi
simili alle nuvole morte
annegano nel fiume

I secoli parlano per telefono
solo la bugia
reclama il diritto al ritorno





Pavlović ‹pàvlovič'›, Miodrag. - Scrittore serbo (n. Novi Sad 1928). Poeta capace di esprimere inquietudini moderne pur aspirando a un ideale estetico classico, ha segnato un punto di svolta nella poesia serba, spaziando dal canto dei primordî della civiltà slava (Velika Skitija "Grande Scizia", 1968Nova Skitija "Nuova Scizia",1970) alla denuncia della disumanizzazione della società dei consumi (Vidovnica "La veggente", 1979Divno čudo "Grande portento", 1982). Molto significativa anche la sua produzione narrativa (Most bez obala "Ponte senza rive", 1956) e saggistica (Rokovi poezije "I termini della poesia", 1958).

www.treccani.it




Miodrag Pavlovic

martedì 20 novembre 2012

Recensioni (3)




Le parole silenti di Dio


Uno sguardo sulla lirica di Domenico Ruggiero

Michele Lasala


Nel Novecento assistiamo a un radicale mutamento della concezione estetica della poesia rispetto alla concezione che ha segnato i secoli precedenti. La poesia del Novecento è una poesia sintetica, rapida, immediata; ma soprattutto libera. Libera dalle regole ferree della metrica, libera da ogni classicismo, libera dall’idea di costruire versi più o meno eleganti, come nella lirica di Leopardi – si pensi al componimento La vita solitaria: «La mattutina pioggia, all’or che l’ale / battendo esulta nella chiusa stanza / […]» - ma libera soprattutto di parlare di sé, senza dover esprimere altro al di là del suono e del significato della parola più pura.Per comprendere questo mutamento avvenuto nella letteratura, basti guardare a ciò che è accaduto nella pittura a cominciare dalle grandi avanguardie dei primi del Novecento, e in particolare a cominciare dall’astrattismo. La pittura astratta­­ – nata intorno al 1910 con Kandinskij  ­– non ha più come referente la natura, il mondo fisico, sensibile; ma una dimensione altra: quella del pensiero. È una pittura tutta concettuale, intellettuale, addirittura spirituale, come la intende lo stesso Kandinskij, che non a caso scriverà un’opera dal titolo a dir poco eloquente: Lo spirituale nell’arte (1912), vero e autentico manifesto dell’astrattismo.Dall’astrattismo in poi l’arte, e in particolar modo la pittura, ha raccontato se stessa attraverso forme geometriche più o meno regolari (da Klee a Mirò), macchie, linee (Mondrian), sgocciolature di colore (da Pollock  a Turcato) eccetera [vedi le immagini in basso].In questo lungo percorso, la pittura si è via via liberata da ogni canone di bellezza, da ogni classicismo, da ogni naturalismo, da ogni realismo. Essa parla di sé e nella sua immediatezza giunge al pensiero. Diventa puro colore, pura forma, pura idea.La poesia grossomodo segue nel XX secolo un percorso analogo a quello della pittura astratta, e già con l’ermetismo avvertiamo un senso di leggerezza formale, un senso di abbandono di ogni forma di classicismo.I poeti ermetici operarono un tentativo di “reinventare” le parole sottraendole all’usura delle associazioni più ovvie della sintassi e delle versificazioni tradizionali, e si volsero alla ricerca della metafora inedita, originale e ancor più del rapporto analogico, capace di accostamenti, e della sinestesia, che metteva in relazione fra loro impressioni logiche e sfere sensoriali diverse.Questa nuova concezione della poesia la avvertiamo in Montale, uno dei maggiori rappresentanti dell’ermetismo. Nella poesia I limoni, contenuta nella nota raccolta Ossi di seppia del 1925, Montale si rivolge a un suo possibile lettore, si rivolge a qualcuno di cui non conosciamo né il volto né il nome: «Ascoltami, i poeti laureati / si muovono soltanto fra le piante / dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti. / Io, per me, le strade che riescono agli erbosi / fossi dove in pozzanghere mezzo seccate agguantano i ragazzi / qualche sparuta anguilla: / le viuzze che seguono i ciglioni, / discendono tra i ciuffi delle canne / e mettono negli orti tra gli alberi di limoni […]».Si avverte da questi versi una presa di distanza da quelli che sono i “poeti laureati”, ovvero i poeti dotti che costruiscono poesie facendo uso di termini oscuri, poco comuni, e non di rado ricoperti da uno starato di polvere. Montale ama invece le parole della strada, le parole che usiamo tutti i giorni e che dicono della nostra autenticità di uomini.Improvvise immagini, suoni lontani, sensazioni fugaci si mescolano nella memoria di un altro grande poeta e scrittore del Novecento: Dino Campana.La limpidezza della lirica di Campana si avverte già nella poesia La chimera: «non so se tra roccie il tuo pallido / viso m’apparve, o sorriso / di lontananze ignote / fosti, la china eburnea / fronte fulgente o giovine / suora de la Gioconda: / o delle primavere / spente, per i tuoi mitici pallori / o Regina o Regina adolescente […]».Per i poeti ermetici la parola è tutto, perché è in essa che si condensa un pensiero, un ricordo, un’emozione, un volto lontano. Ed è per questo che un poeta tedesco come Gottfried Benn scriverà una poesia dal titolo Una parola: «una parola, una frase: da cifrati / segni scoperta vita emerge, fulmineo senso: / ristà il sole, tacciono / le sfere, tutto in quella si raddensa. // Una parola: un bagliore, un volo, un fuoco, / un vampo, di stelle cadenti un brillio. / Poscia di nuovo sterminato buio, / nel vuoto spazio intorno al mondo, e all’io».Ed è proprio questa concezione che affiora dalla lirica del poeta tranese Domenico Ruggiero, così come affiorano le concezioni liriche di Montale e di Campana.Per Domenico Ruggiero, la parola ha la forza di esprimere tutto il significato dell’Essere, tutto il senso dell’esistente, tutta la verità dell’Assoluto e del niente.Suggestioni, immagini, emozioni, fulminei ricordi diventano scrittura; si raddensano in rapidi versi che dal buio della coscienza sgorgano e fluttuano nella luce del mondo per comunicare remoti messaggi di speranza ed esprimere il delicato e agrodolce “sapore del niente”, espressione, quest’ultima, che ritroviamo in uno dei versi del poeta.Il senso di tristezza e di malinconia per le cose che finiscono e muoiono si intuisce nella poesia Illusione: «Illusione / dolce e triste chimera // che sorgi al mattino / e muori alla sera. // Vivi soltanto un giorno // sepolta dai raggi di sole / che vanno a dormire.// Domani / nascerà tua sorella // figlia della stessa canzone».Per Ruggiero l’illusione ha un duplice volto: quello della dolcezza e quello della tristezza, ed è per questo che essa è simile a una chimera. È qualcosa che parla la lingua della menzogna, della falsità e dell’inganno. Un giorno vive, l’illusione, come le rose della canzone di De André, e muore sepolta sotto il manto scuro del firmamento. Ma come Fenice, rinasce nel nuovo giorno per continuare a dar senso alla vita caduca d’ogni uomo. Speranza, amore, attesa sono illusioni che muoiono e rinascono nel profondo dell’anima e fanno vibrare le corde del cuore.In un’altra poesia, Il fiore, Domenico Ruggiero vede, nella dimensione feconda del pensiero di un fiore, la certezza che alimenta il suo desiderio di vita: «Sono costernato / perché vedo le deformità / di ciò che vive // delle gambe dell’uomo che si aprono e si chiudono // delle sue mani che ciondolano // della testa che si muove / da un lato all’altro // eppur vive / convinto di essere perfetto / […] / l’unica cosa che mi fa sopravvivere // è la certezza / di una dimensione feconda // del PENSIERO DI UN FIORE // che ha la purezza / dello spirito // della santità // del concepimento assoluto. // Ed è questo / che mi dà la forza di lottare // di esercitare / la professione del pensatore // di dire: sono ancora VIVO».La poetica di Ruggiero, ricca di metafore, di immagini, di impressioni, di simboli, e sovente anche ricca di anafore, nasce esattamente come nascono i quadri dei pittori macchiaioli dell’Ottocento. Non c’è una struttura di base, non c’è un “disegno preparatorio”: c’è soltanto la vibrante e vivida immagine impressa sulla pagina bianca, come luce impressa su pellicola sensibile. Leggere la lirica di Ruggiero è penetrare nel profondo della nostra coscienza e del nostro essere, con la speranza di (ri)trovare il volto più autentico del nostro io che riflette la purezza e il candore del volto di Dio.



Wassily Kandinsky



Paul Klee 



Joan Mirò



Jackson Pollock



Giulio Turcato

martedì 9 ottobre 2012


Sono 870 milioni le persone che soffrono la fame

Rapporto Fao: uno su otto senza cibo. In calo, ma il 16% vive nei Paesi sviluppati. Save the Children: 200 milioni i bimbi malnutriti


Sono quasi 870 milioni le persone che soffrono la fame. La maggioranza, ossia 852 milioni, vive nei paesi in via di sviluppo, e rappresenta il 15% della loro popolazione complessiva, mentre i restanti 16 milioni vivono nei paesi sviluppati. È quanto evidenzia il rapporto «The State of Food Insecurity in the World 2012» (Sofi), pubblicato dalla Fao insiema al Fondo Internazionale per lo sviluppo agricolo (Ifad) e il Programma alimentare mondiale (Pam).

IN CALO - L'Onu, l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Agricoltura e l'Alimentazione, spiega che il totale dei malnutriti è calato e questo è fa ben sperare di riuscire a raggiungere, o quantomeno avvicinare, l'obiettivo di dimezzare entro il 2015 il numero di quanti soffrono la fame nel mondo, ma è ancora un numero «inaccettabile». I dati: nel periodo compreso tra il 1990-92 e il 2010-12 il numero totale delle persone che soffrono la fame è diminuito di 132 milioni, passando dal 18,6% della popolazione mondiale al 12,5%, e dal 23,2% al 14,9% nei paesi in via di sviluppo. Tra il 1990 e il 2007 il numero delle persone che soffrono la fame è calato in modo molto più marcato di quanto non si prevedesse, mentre dal 2007-08 i progressi si sono rallentati e stabilizzati.

I DATI POSITIVI - «Dal 2007, con la crisi economica, sono state colpite le fasce più povere - ha sottolineato José Graziano da Silva, direttore generale Fao, intervenendo alla presentazione dell'edizione 2012 del rapporto Sofi - sia sul fronte dei consumatori che dei produttori. Nell'Africa subsahariana il numero di affamati è passato a 234 milioni con un incremento di 64 milioni; in Africa settentrionale da 22 milioni a 41, fenomeno collegato alle situazioni di conflitto; in Asia la riduzione delle persone che soffrono la fame, 195 milioni, è piuttosto consistente. Asia e Pacifico hanno fatto la parte del leone in questo caso». È di oltre il 35% la riduzione degli affamati in Mali, Camerun, Thailandia, Perù, Nicaragua, Brasile». Tutti esempi di risultati positivi», ha commentato da Silva: «Progressi sono stati ottenuti ma i numeri sono ancora troppo alti, un dato inaccettabile per noi».

I BAMBINI - L'80% dei bambini gravemente malnutriti nel mondo si concentra in 20 paesi. La maggior parte di essi sono anche i paesi con un alto tasso di mortalità infantile come Sierra Leone, Somalia e Mali. 
E sui bambini si concentra anche il rapporto su mortalità infantile e denutrizione di Save the Children: 200 milioni di bambini sotto i 5 anni nel mondo - argomenta il rapporto - soffrono di malnutrizione, responsabile di più di un terzo di tutte le morti infantili. A fronte di un terzo della produzione mondiale di cibo perduta o sprecata ogni anno, pari a 1,3 miliardi di tonnellate. Con il nuovo rapporto With-Out, riparte quindi la Campagna Every One di Save the Children per combattere le morti assurde di 6,9 milioni di bambini all'anno. Il Palloncino rosso - simbolo della Campagna - attraverserà l'Italia per mobilitare persone e istituzioni. Anche molti testimonial a fianco di Every One, che dal 15 ottobre all'11 novembre si potrà sostenere con un sms 45507

OBIETTIVO ZERO - Negli ultimi 20 anni, secondo i dati del rapporto Sofi, le politiche per la riduzione di questa emergenza che colpisce il 15% della popolazione del pianeta hanno dato risultati migliori di quanto non si potesse prevedere, tanto che sembra possibile raggiungere gli obiettivi di dimezzamento della percentuale di popolazione sottonutrita fissati per il 2015: «È venuto il momento di guardare avanti - ha concluso da Silva - l'obiettivo zero del Millennium Development Goal può essere perseguito. Dobbiamo spingerci laddove possibile: la Fao lavorerà con le agenzie consorelle per raggiungere questo obiettivo».

SFIDA - La relazione di quest'anno si sofferma inoltre sul ruolo della crescita economica nella diminuzione della denutrizione; una crescita sostenibile in agricoltura è spesso efficace, sottolinea il rapporto, per coinvolgere nei programmi di sviluppo anche le fasce di popolazione più povere che vivono nelle zone rurali e che traggono solo dall'agricoltura i loro mezzi di sussistenza.


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Vincent Van Gogh. La sofferenza e la solitudine tra cieli notturni e fiori di lillà Decrease Font Size Increase Font Size Text Size Stam...