sabato 18 maggio 2013


Artemisia Gentileschi. Una vita vissuta tra pittura e passione


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di Michele Lasala
18 maggio 2013 - Il lungo e intenso percorso di riscoperta e riqualificazione della pittura e della personalità di Artemisia Gentileschi comincia nel non troppo lontano 1916, anno in cui Roberto Longhi, uno dei più grandi storici dell’arte italiani del XX secolo, cui si deve anche il merito di aver ridato ossigeno alla figura di Caravaggio attraverso una grandiosa mostra dedicata al pittore lombardo al Palazzo Reale a Milano nel 1951, quando di Michelangelo Merisi si sapeva poco e niente, scrive un articolo (pubblicato sulla rivista L’arte) dal titolo abbastanza indicativo:Gentileschi padre e figlia. In questo breve scritto Longhi ci dice che Artemisia fu: «L’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura e colore, e impasto, e simili essenzialità […] nulla in lei della peinture de femme che è così evidente nel collegio delle sorelle Anguissola, in Lavinia Fontana, in Madonna Galizia Fede, eccetera».
UNA PITTURA VIRILE – In Artemisia dunque, secondo l’acuta osservazione di Longhi, non c’è nulla che rimandi alla pittura “femminile” di una Lavinia Fontana o di una Anguissola; la pittura della Gentileschi, al contrario, è una pittura virile, maschia, priva di leziosità ma carica di dramma e di pathos. Artemisia Gentileschi dipinge effettivamente come un uomo, dipinge come Caravaggio, dipinge come il padre Orazio, come Battistello Caracciolo, come l’olandese Dirik van Baburen. Dipinge avendo come punti di riferimento i grandi nomi del Seicento europeo, per diventare essa stessa un maestro altrettanto grande quanto lo stesso Caravaggio, il pittore che più di tutti ha influito sulla sua pittura. Ed è per questo che Roberto Longhi, dopo aver riconosciuto la grandezza della pittrice romana, eleva il nome di Artemisia alla stessa altezza di quello del padre Orazio, intitolando il suo scritto appunto Gentileschi padre e figlia. Ma è anche vero che, come dice la brava Tiziana Agnati, in una sua monografia dedicata alla pittrice,  questo scritto di Roberto Longhi è il «primo serio tentativo di analizzare la produzione dell’artista nel più vasto contesto del caravaggismo e, soprattutto, di tentare una prima, accurata distinzione delle opere della figlia rispetto a quelle del padre». Dallo scritto del Longhi ad oggi numerosi sono stati gli studi condotti sulla figura di Artemisia. Accanto a questi non mancano biografie romanzate e film che raccontano il percorso artistico ed esistenziale dell’artista, ispirati dalla vita tormentosa e inquieta di una donna che ha combattuto tenacemente per affermare il suo essere e dimostrare il suo indiscutibile talento creativo, in un’epoca, il Seicento, in cui non era concesso a una donna di diventar pittrice.
ARTEMISIA, PITTRICE CARAVAGGESCA – Fino al 1610/15 Artemisia segue le orme del padre, dipingendo, sempre con una certa pacatezza e un certo equilibrio, non solo quadri di soggetto religioso, come la Susanna e i vecchioni (1610), o le diverse Madonne col Bambino, ma anche scene di genere, in cui compaiono molto spesso figure come suonatrici di liuto, scene queste ispirate ai quadri di analogo soggetto dei pittori olandesi del periodo. Ma il 1612 è certamente l’anno della svolta stilistica per la Gentileschi, perché questo è l’anno in cui la pittrice dipinge la prima versione di un quadro come Giuditta che decapita Oloferne, oggi conservato nel Museo di Capodimonte a Napoli, opera dichiaratamente ispirata ai quadri di Caravaggio. Da questo momento in poi la pittura di Artemisia si fa sempre più drammatica, sempre più cupa, sempre più inquieta. Pittura che segna il lungo periodo caravaggesco della Gentileschi. È questa la stagione in cui Artemisia attraverso la pittura ha modo di parlare di sé, del suo dramma e della sua inquietudine. Il 1612 è infatti anche l’anno in cui si celebra il processo contro il pittore Agostino Tassi per avere stuprato la pittrice. La Giuditta del Capodimonte ha tutta l’aria di essere un’istantanea fotografica di quello che poteva essere il desiderio di Artemisia rispetto al Tassi: tagliare la testa al proprio carnefice. E infatti non è un caso che il volto morente di Oloferne nella sua ultima notte sia proprio quello di Agostino Tassi, e quello di Giuditta ricordi i tratti somatici della stessa Artemisia.
L’ATTIMO FUGGENTE – Nel quadro napoletano la scena della decapitazione avviene in un ambiente indistinto. Una luce proveniente da sinistra illumina l’azione del delitto nel momento più drammatico, nel momento in cui Giuditta ha già operato il primo taglio sulla gola di Oloferne e il sangue del tiranno comincia a sgorgare macchiando le bianche lenzuola del suo letto. Oloferne si dimena ma viene subito bloccato da un’altra donna, la fantesca complice di Giuditta. Il tutto si compie in un attimo, in pochi secondi. Quello che la Gentileschi ha immortalato in questa scena è un momento cruciale, perché è il punto in cui Oloferne non è né vivo né completamente morto, un momento che ricorda la famosa foto di Robert Capa: Il miliziano morente, dove un soldato appena colpito da un proiettile sta per cadere al suolo, ed è tra la vita e la morte.
IL DRAMMA DI LUCREZIA – La potenza drammatica della pittura di Artemisia Gentileschi sta anche in questo: nel cogliere il momento di massimo pathos in una scena. E ciò lo vediamo anche in un altro quadro di stampo caravaggesco: la Lucrezia del 1621, opera conservata a Genova nel palazzo Cattaneo-Adorno. Qui Lucrezia è colta nel momento in cui sta per compiere il suicidio. Il corpo della donna emerge da uno sfondo scuro, buio, ed è illuminato da una forte luce proveniente, anche qui, da sinistra che vuole descrivere non già l’anatomia del corpo della donna, ma il dramma che sta compiendosi. Anche il volto della Lucrezia genovese ricorda il volto di Artemisia, ma la Gentileschi non si è suicidata. Ha preferito la vita nonostante la sua congenita inquietudine, ha preferito dipingere  fino agli ultimi anni della sua esistenza, lasciando al mondo quadri capaci di raccontare nel loro insieme la cronaca della sua stessa vita. Una vita vissuta tra pittura e passione.
LA MOSTRA – Il BLU – Palazzo d’arte e cultura di Pisa ospita la mostra Artemisia. La musa Clio e gli anni napoletani. Dal 23 marzo al 30 giugno. La retrospettiva ripercorre le tappe del periodo napoletano di Artemisia Gentileschi.
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Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne (1612-1613), Napoli, Museo di Capodimonte

Articolo pubblicato su www.quotidianolive.com il 13 maggio 2013

venerdì 10 maggio 2013

Karol Wojtyła. Un filosofo poeta alla ricerca dell’intima Sorgente



di Michele Lasala

«Un grande uomo costringe gli altri a spiegarlo», è quello che diceva Hegel, il più grande filosofo idealista dell’Ottocento, ed è quello che allo stesso tempo potremmo dire tranquillamente noi di un uomo come Karol Wojtyła. A otto anni dalla sua morte (2 aprile 2005), mi piacerebbe ricordare e pensare Giovanni Paolo II attraverso la sua speculazione e riflessione filosofica, oltre che teologia. Riflessione che certo sta alla base e a fondamento di tutto il suo pontificato e di tutta la sua personalità. Il concetto di persona, il concetto di atto, il concetto di fede e quello di ragione - concetti che Wojtyła pone al centro di tutto il suo pensiero - non possono che esser visti come chiave squisitamente ermeneutica per poter comprendere pienamente non solo tutta la parabola del pontificato di Giovanni Paolo II, durato ben ventisette anni, ma anche e soprattutto la natura di un uomo che decide giovanissimo (a 22 anni), in una Cracovia devastata e violata dall'occupazione nazista, stuprata e umiliata da una guerra assurda, di lasciare il teatro, la drammaturgia, sua grande passione, e incamminarsi verso una strada del tutto nuova ai suoi occhi: quella del sacerdozio, quella strada che lo avrebbe poi fatto proclamare Vescovo di Roma il giorno 16 ottobre del 1978.

LA LUCE OLTRE I FUMI DELLE BOMBE - Pensare alla Cracovia degli anni Trenta, e all'intera Polonia di quegli anni, è avere di quella città un’immagine in bianco e nero, priva di colori, priva di vitalità; un’immagine capace di evocare gli orrori e la stupidità di una guerra attraverso la descrizione dell’avanzata degli ebrei verso il ghetto di Podgórze, di strade desolate, di corpi trucidati. Guardando quella Cracovia la memoria non può non andare a un quadro di Bernardo Bellotto, uno dei più interessanti pittori vedutisti del Settecento: Le Rovine del Vecchio Kreuzkirche in Dresda, dove i resti di una chiesa, distrutta a seguito di un bombardamento delle truppe prussiane, stanno a testimoniare nella loro nudità la resistenza di un intero popolo alla violenza, al sopruso, alla prepotenza del nemico. Sono i ruderi che parlano la lingua di uno spirito ferito, quello di una nazione. È esattamente quello che si avverte vedendo le immagini della Polonia sfigurata degli anni Trenta, Quaranta. Gli anni dell’occupazione nazista. Gli stessi anni in cui il giovane Karol entra nel seminario clandestino diretto dall’arcivescovo di Cracovia Sapieha, cominciando così il suo lungo percorso pastorale.

FEDE E RAGIONE - Karol Wojtyła subito dopo essere stato ordinato sacerdote (1946) si reca a Roma per proseguire i suoi studi teologici e si iscrive alla Pontificia Università San Tommaso d’Aquino. Qui ha modo di approfondire il pensiero di san Giovanni della Croce. Scriverà la sua tesi di dottorato proprio su questo autore. Ed è in questo periodo che comincia a prender forma e corpo il suo pensiero di stampo prevalentemente neotomista, pensiero che lo accompagnerà sino alla stesura della famosa enciclica del 1998 Fides et Ratio. Fede e ragione, secondo Wojtyła, sono strettamente legate fra loro: l’una presuppone l’altra, e viceversa. Sono le due forme per giungere alla Verità. In questo Wojtyła richiama direttamente la formula agostiniana “credo per capire, e capisco per credere”. La fede non può separarsi dall’uso della ragione, ma essa deve accompagnare l’indagine razionale per darle più luce.

IL MISTERO DELLA PAROLA - Nella stessa enciclica Fides et Ratio Karol Wojtyła afferma infatti che «Il legame intimo tra la sapienza teologica e il sapere filosofico è una delle esperienze più originali della tradizione cristiana nell'approfondimento della verità rivelata. Per questo li esorto [ai teologi, n.d.r.] a recuperare e a evidenziare al meglio la dimensione metafisica della verità per entrare così in un dialogo critico ed esigente tanto con il pensiero filosofico contemporaneo quanto con tutta la tradizione filosofica, sia questa in sintonia o in contraddizione con la parola di Dio». Tra teologia e filosofia deve sussistere un legame intimo, affinchè sia possibile penetrare il mistero della parola di Cristo, la realtà di Dio che trascende la dimensione fattuale ed empirica dell’uomo.

 UNA VITA DEGNA DI ESSERE VISSUTA - «La Chiesa da parte sua non può che apprezzare l’impegno della ragione per il raggiungimento degli obiettivi che rendono l’esistenza personale sempre più degna. Essa infatti vede nella filosofia la via per conoscere profondamente verità concernenti l’esistenza dell’uomo. Al tempo stesso, considera la filosofia un aiuto indispensabile per approfondire l’intelligenza della fede e per comunicare la verità del Vangelo a quanti ancora non la conoscono». In questa enciclica Giovanni Paolo II ribadisce l’importanza che la filosofia assume agli occhi della Chiesa, perché l’impegno della ragione, e conseguentemente la ricerca filosofica, rendono la vita dell’uomo degna d’esser vissuta, e allo stesso tempo permettono all’uomo di giungere, pervenire alla conoscenza di sè. Alla verità del suo essere.

COMPRENDERSI COME PERSONA - È proprio attraverso la filosofia, e attraverso la fede, che l’uomo giunge a comprendersi come persona, come qualcosa che va al di là della dimensione più prettamente biologica, a comprendere la sua esisenza come irriducibile alla sola e pura materialità. Comprendere ciò significa, per Karol Wojtyła, trascendersi, superarsi, andare oltre la dimensione “fenomenica” dell’esistenza e giungere così a riconoscersi come persona.

LA POESIA - Sempre nella enciclica Fides et Ratio Giovanni Paolo II scrive infatti che «La persona, in particolare, costituisce un ambito privilegiato per l’incontro con l’essere e, dunque, con la riflessione metafisica». L’uomo sarebbe in grado di congiungersi a Cristo, arrivare a guardare il volto di Dio, entrare in comunicazione con l’Assoluto attraverso quella che lo stesso Wojtyła chiama «trascendenza verticale», un tendere verso sé, che è allo stesso tempo un tendere verso il Verbo. Per cogliere il vero senso di questa espressione, e per cogliere il profondo significato filosofico e teologico del pensiero wojtyłiano basterebbe guardare all’intera sua opera poetica. La poesia, in effetti, per Giovanni Paolo II, è un’altra forma per giungere alla Verità; una forma che certo non può rimanere distaccata o separata dalle altre due: fede e ragione. Ed è per questo che mi piacerebbe chiudere con questa poesia, La sorgente, lirica che probabilmente meglio racchiude la speculazione filosofica e teologica di Karol Wojtyła.

Seno di bosco discende
Al ritmo di montuose fiumare.
Se vuoi trovare la sorgente, devi proseguire in su, controcorrente.
Penetra, cerca, non cedere,
tu lo sai, dovrebbe essere qui, da qualche parte
Sorgente, dove sei?
Dove sei, sorgente?
Un silenzio.
Torrente di bosco, torrente,
svelami il mistero della tua origine!
(Un silenzio, perché taci?
Hai sottratto alla vista scrupolosamente
Il mistero della tua scaturigine.)
Consentimi di aspergere le labbra
d'acqua della sorgente, di percepire la freschezza,
freschezza vivificante.

(articolo pubblicato su www.quotidianolive.com il 9 aprile 2013)

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giovedì 2 maggio 2013

Federico Barocci. Il pittore che seppe far danzare gli angeli
Michele Lasala

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Se c’è un pittore che da sempre ha destato in me particolare interesse, questi è Federico Barocci, pittore marchigiano e rivoluzionario della pittura di fine Cinquecento. Nato ad Urbino, la città di Raffaello, nel 1535, Barocci trascorre un periodo infelice a Roma, dove però ha modo di studiare direttamente la pittura del più anziano Michelangelo e la pittura del suo conterraneo Raffaello Sanzio. Il successivo soggiorno a Parma (tra il 1555 e il 1557), invece, lo metterà a confronto con la pittura di Correggio, altro grande maestro del Rinascimento più maturo. Ma tra tutti, sarà proprio Raffaello il pittore che eserciterà in lui particolare influenza, particolare fascino, particolare attrazione. A tal punto che il carattere dominante della intera produzione pittorica di Barocci non a caso sarà la grazia, quella stessa che ritroviamo nelle opere del Sanzio, ma che in Barocci viene declinata in altro modo.
MALINCONICHE MADONNE E ANGELI DANZANTI – Grazia, delicatezza, dolcezza, eleganza sono le parole che vengono in mente guardando le opere del nostro pittore; idee che prendono forma e concretezza nei corpi di malinconiche Madonne, di Bambini talora ridenti, talora addormentati, talora assorti; nei corpi di piccoli angeli danzanti nell’aria. La pittura “riformata” di Federico Barocci – tale perché il periodo in cui il maestro marchigiano lavora è quello segnato dalla Controriforma –  porta dentro di sé tutta la tradizione del Rinascimento italiano, ma allo stesso tempo essa manifesta tratti di assoluta originalità, di assoluta modernità, a tal punto da anticipare la grande stagione della pittura “barocca” del Seicento, periodo in cui assistiamo alla rivoluzione determinata dall’arte fortemente drammatica e realista di Caravaggio, dalla classicità della pittura – alle volte fin troppo accademica – dei Carracci, ma anche dalla pittura di Guercino, di Guido Reni, di Domenichino, di Pietro da Cortona, stando almeno all’ambito italiano. Ma il Seicento sarà anche il secolo dei grandi pittori europei, come Rembrandt, Velazquez, Murillo, De La Tour, Vouet.
UN PONTE TRA CLASSICISMO E BAROCCO – Da questo punto di vista, si può dire effettivamente che Barocci rappresenti un vero trait d’union tra due stagioni artistiche, tra due secoli. Egli funge, stando a quanto ci dice Stefano Zuffi, da vera cerniera tra Rinascimento e barocco. Gli anni in cui opera Federico Barocci sono gli stessi di Pontormo, di Rosso Fiorentino, Agnolo Bronzino, di Domenico Beccafumi. Sono gli anni del Manierismo. E anche al Manierismo guarderà il nostro pittore, mutuando da esso l’uso del colore e il gusto per le forme allungate, conferendo così alle sue figure eleganza e solennità.
FUGA IN UN EGITTO SURREALE – Del 1570 è il Riposo durante la fuga in Egitto, opera oggi conservata alla Pinacoteca Vaticana. Questa è una tela in cui per la prima volta nella storia dell’arte vediamo un san Giuseppe sorridere mentre dà al Figlio un ramoscello appena staccato dall’albero che ha alle spalle. Gesù Bambino risponde al sorriso del padre con un altrettanto candido sorriso. In primo piano, la Madonna, elegante, graziosa, delicata, raccoglie in una piccola ciotola dell’acqua da un ruscello. Sullo sfondo sia apre un paesaggio di sogno, un paesaggio surreale, certamente immaginato e prodotto dalla mente e dalla fantasia di Barocci. Un paesaggio fatto di sole macchie di colore, di rapide pennellate, ma che ha tutta la forza di evocare i paesi sperduti di un Egitto antico, lontano, caldo, desertico.
LA MODERNITA’ DI FEDERICO BAROCCI – La naturalezza dei gesti, la bellezza di vivere, la felicità che da padre a figlio si trasmettono, sono in un attimo bruscamente interrotti da un barlume di malinconia che traspare nel volto della Vergine, come fosse un richiamo a quello che sarà il destino di Cristo e il destino dell’umanità. La Madonna conosce la verità di suo figlio, porta dentro di sé tutto il dolore del mondo, porta nel suo cuore la Croce di Gesù e nasconde sotto le ciglia il pianto disperato della Passione e la luce accecante della Resurrezione. Alle sue spalle, invece, un momento di felicità, di spensieratezza tra Giuseppe e Cristo bambino; un gaio momento ludico durante una gita fuori porta, si potrebbe dire.
BAROCCI PITTORE IMPRESSIONISTA ANTE LITTERAM La modernità di questa  scena emerge proprio nei gesti, nei sentimenti, nelle posture dei personaggi, che ricordano alcune scene di vita quotidiana dipinte dai pittori impressionisti di fine Ottocento, pittori che hanno raccontato la bellezza di vivere e i piaceri dell’esistenza. Si pensi a Renoir, a Manet o magari a De Nittis. Questa tela del Barocci rimanda infatti ad alcune colazioni in giradino, dipinte sul finire dell’Ottocento o ad alcune scene di bagnanti dello stesso periodo. Attimi, frammenti di vita, piccoli moti del corpo si imprimono nella mente di Barocci e trovano espressione e concretezza nelle sue tele, dando corpo non già a scene di “genere” di vita quotidiana, ma a scene di soggetto sacro, dove Madonne, Bambini, santi e Padri raccontano il divino con la lingua degli uomini, con il linguaggio della quotidianità, stabilendo così un mirabile rapporto tra il sacro e il profano, tra il divino e il mondano.
LA MOSTRA – In questi giorni è in corso a Londra una mostra monografica dedicata a Federico Barocci: Barocci. Brillance and Grace (da 27 febbraio al 19 maggio), la prima monografica dedicata al pittore. Dipinti, pale d’altare, disegni documentano le diverse fasi della carriera e della produzione del pittore marchigiano.

(Articolo pubblicato su www.quotidianolive.com in data 19 aprile 2013)
Federico Barocci, Riposo durante la fuga in Egitto (1570 - 1575), Roma, Pinacoteca vaticana
Federico Barocci, Riposo durante la fuga in Egitto (1570 – 1575), Roma, Pinacoteca vaticana
Edouard Manet. La pittura che parla il gergo della modernità


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di Michele Lasala

La storia dell’arte, al pari della storia del pensiero, rivela nella sua sostanza più profonda una trama costituita da una serie infinita di ramificazioni, da strade innumerevoli che di volta in volta si intersecano fra loro, dando vita ad incroci non di rado imprevedibili, sorprendenti, inaspettati. C’è uno strano e curioso legame che unisce, per esempio, indirettamente il Rinascimento italiano e Picasso, uno dei più grandi pittori di tutti i tempi, vuoi per intelligenza, vuoi per creatività. E questa linea corre lungo l’intera produzione pittorica di Edouard Manet, il pittore francese dell’Ottocento con cui tradizionalmente si fa cominciare quella che viene chiamata ‘arte moderna’.
VERSO TERRE LONTANE – Nato in una famiglia della buona borghesia parigina nel 1832, il giovanissimo Edouard Manet segue dapprima studi classici, ma ben presto abbandonerà gli studi, scegliendo la carriera di ufficiale di marina. Comincia così a viaggiare in lungo e in largo  e con una nave mercantile si sposta addirittura fino a Rio de Janeiro.  Tra il 1850 e il 1856 avviene la sua formazione artistica a contatto diretto con l’ambiente dell’accademico Couture. Ma sarà la grande tradizione della pittura italiana del Rinascimento ad infuocare in lui l’entusiasmo per l’arte e per la bellezza. Guarda con attenzione in particolar modo la pittura veneziana del Quattrocento e del Cinquecento, e rimane affascinato dalle opere evidentemente sensuali di Tiziano, dalle opere quasi “cinematografiche” di Tintoretto, dalla pittura di chiara vocazione teatrale di Veronese, dalle donne calde e suadenti di Giorgione. Allo stesso tempo, però, Manet guarda agli spagnoli, rimanendo particolarmente colpito dalla grandezza e dalla genialità di Diego Velázquez e dalla potenza della pittura di Francisco Goya.
IL RINASCIMENTO, FONTE DI ISPIRAZIONE – La sensualità e il colorismo della pittura veneta, la fluidità della pennellata di chiara ascendenza spagnola sono alcuni degli elementi che ritroviamo infatti nell’opera più matura di Manet, quali segni di inequivocabile legame con la tradizione pittorica cinquecentesca e seicentesca, fonte inesauribile di ispirazione anche in un periodo storico delicato e caratterizzato da profonde trasformazioni sociali come quello segnato dalla rivoluzione industriale, periodo in cui il pittore francese dipinge i suoi più importanti capolavori, come l’Olympia e la  Le déjeuner sur l’herbe, entrambe opere del 1863 ed entrambe conservate oggi al Musée d’Orsay di Parigi.
BELLEZZA E SENSUALITA’ – L’Olympia è forse l’opera di Manet che meglio spiega il profondo e intenso legame che il pittore francese ha instaurato con la pittura veneziana del secolo XVI, dal momento che il modello di riferimento da cui scaturisce quest’opera è indubbiamente la Venere di Urbino di Tiziano, opera dipinta nel 1538, stando almeno alle più recenti datazioni. Se la donna di Tiziano è appunto una Venere, e quindi l’incarnazione della bellezza e della sensualità, la prova lampante e incontrovertibile dell’idea diventata carne; la donna dipinta da Manet è invece una puttana, una donna che vende il suo corpo per professione e per passione. Nulla di ideale, nelle donne di Manet, nulla di così astratto. Tutto parla la lingua della vita quotidiana, il gergo della modernità. L’Olympia aspetta il suo cliente su candide lenzuola, appoggiata a morbidi cuscini, completamente nuda. Alle sue spalle una donna negra le offre un mazzo di fiori, evidentemente un omaggio floreale da parte di un amante lontano, dimenticato, oramai senza più volto e senza più nome. Ai suoi piedi un gatto nero, animale che allude al mistero e alla sensualità. L’animale che forse più si avvicina al temperamento femminile. Ma sia la fantesca africana sia il misterioso felino hanno la funzione di esaltare ed evidenziare il biancore della carne dell’elegante meretrice che nel frattempo guarda noi come a invitarci a trascorrere momenti di puro piacere con lei, col suo corpo, con la sua sensualità.
LA PITTURA DELLA QUOTIDIANITA’ – La pittura di Manet racconta la vita che si consuma quotidianamente tra i salotti e i boulevard parigini di fine Ottocento. La vita di borghesi che amano le corse dei cavalli o stare al balcone e godersi magari una sfilata in un placido pomeriggio domenicale. Ma allo stesso tempo racconta la vita di uomini soli, abbandonati, nostalgici. Di uomini che hanno perduto l’entusiasmo di vivere e il senso dell’esistenza. Le immagini che Manet ci offre con i suoi quadri sono immagini che sembrano uscire dalle pagine dei romanzi di Zola o di Guy de Maupassant, dove ad essere narrato molto spesso è l’aspetto più torbido dell’anima umana, i cui frutti prendono il nome normalmente di ipocrisia, solitudine e malata borghesia.
LE IDENTITA’ PERDUTE – Un quadro come La prune (1877 / 78) ci fa vedere una donna dallo sguardo vuoto, assente mentre è al tavolo di un bar davanti a un bicchiere che contiene una prugna. È l’immagine della vuotezza della esistenza, della malinconia, della sofferenza interiore, della perdita del proprio io, della perdita della propria identità. È questo probabilmente il quadro che meglio rimanda al periodo rosa di Picasso, dove saltimbanchi, equilibristi, clown rivelano il loro vero volto senza la maschera del ridicolo, che è quello di uomini profondamente tristi, perché pieni di solitudine, perché pieni di incurabile inquietudine. Di uomini che hanno deciso di stare al di là del bene e del male.
LA MOSTRA – E’ aperta al palazzo Ducale di Venezia dal 24 aprile al 18 agosto la mostra intitolata Manet. Ritorno a Venezia, a cura della Fondazione Musei Civici. Una grande esposizione che fa luce su quelli che sono stati i rapporti tra il pittore francese e la pittura veneta del Cinquecento. Per la prima volta l’Olympia di Manet è esposta a fianco della Venere di Urbino di Tiziano.

(Articolo pubblicato su www.quotidianolive.com in data 30 aprile 2013)

Edouard Manet, Olympia (1863), Parigi, Musée d’Orsay

    Edouard Manet, Olympia (1863), Parigi, Musée d’Orsay

Vincent Van Gogh. La sofferenza e la solitudine tra cieli notturni e fiori di lillà Decrease Font Size Increase Font Size Text Size Stam...