I colori dell’umanità. Oltre le nebbie del razzismo
e della stupidità
di Michele Lasala
Il
fenomeno della discriminazione razziale è un tema quanto mai attuale,
nonostante il fatto che da più parti oramai si alzino voci in difesa di quell'atteggiamento miope che vorrebbe far credere che il fenomeno del razzismo, da sempre
esistito, sia oramai superato e dissolto nel tempo e nella storia. Un fenomeno,
per così dire, appartenente al passato, e che teoricamente non dovrebbe più
riguardare, in linea di massima, il presente, giacchè si presume che la civiltà
moderna e contemporanea (e cioè prevalentemente quella occidentale) abbia, per
così dire, ben introiettato e fatto proprii i principii morali universali della
tolleranza e della eguaglianza fra gli individui, oltre che il principio che
presuppone il rispetto dell’uomo in quanto uomo. Un principio, quest’ultimo,
che deve valere sempre e incondizionatamente, al di là della etnia
d’appartenenza, dalla religione che si professa, dal colore più o meno scuro
della propria pelle, o semplicemente dalla lingua che si parla. Un principio
che coincide perfettamente con il secondo comandamento riportato nel Vangelo secondo Matteo che così recita:
“Amerai il prossimo tuo come te stesso”.
In
realtà, anche a fronte di innumerevoli episodi spiacevoli che riempiono le
pagine di cronaca nera dei nostri
quotidiani, il fenomeno del razzismo pare essere all’ordine del giorno. Un
fenomeno talmente diffuso su scala mondiale che pare quasi assurdo ignorarne
l’evidenza, oltre che la gravità. Un fenomeno che ancora oggi solleva questioni
etiche e politiche che necessitano quantomeno di risposte sensate. Magari trovandole
proprio rivolgendo lo sguardo al nostro più recente passato.
Il
21 dicembre del 1965 a New York fu elaborata e resa pubblica dall’Assemblea
generale delle Nazioni Unite la Convenzione
internazionale sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, documento
che poggiava le sue basi su una precedente dichiarazione dell’UNESCO dell’8
giugno 1951 (poi rielaborata nel luglio 1962) sulla natura delle razze e sulle
differenze razziali, redatta da un gruppo internazionale di genetisti e di
antropologi. Questa dichiarazione tentò di dimostrare l’infondatezza di
qualsiasi teoria scientifica che ammettesse l’esistenza della diversità raziale
fra i popoli e che vedesse in quella “ariana” o “nordica” una razza superiore
rispetto alle altre. Si pensi a tal proposito alla diffusione del cosiddetto “arianesimo”
in Germania ad opera di Houston Stewart Chamberlain con la sua Die Grundlagen des XIX Jahrhunderts,
pubblicata nel 1899.
Nella
dichiarazione dell’UNESCO è scritto esplicitamente che: «il materiale
scientifico oggi disponibile non giustifica la conclusione secondo cui le
differenze genetiche ereditarie sarebbero un fattore importante nel determinare
le diversità tra le culture e le realizzazioni culturali di diversi gruppi o
popoli» e che «non vi è alcuna prova in favore dell’esistenza delle cosiddette
razze pure. Riguardo alla mescolanza tra le razze, invece, le testimonianze
sottolineano che l’ibridazione ha proceduto per un tempo indefinito, ma
considerevole». Mentre, nella successiva Convenzione del ’65 era prevista la
possibilità di adottare misure speciali «al solo fine di assicurare in modo
adeguato il progresso di alcuni gruppi razziali o etnici o di individui
bisognosi della protezione che può essere loro necessaria per garantirgli il
godimento dei diritti dell'uomo… in condizioni di eguaglianza». Da quella data
ad oggi, purtroppo, le “condizioni di eguaglianza” pare non siano state poi
molto garantite, né tanto meno è stato reso possibile il “progresso di alcuni
gruppi raziali o etnici”, come giustamente indicato nella Dichiarazione. E
questo lo possiamo constare guardando semplicemente alla situazione politica
internazionale, dove non di rado a stabilire i confini di un Paese o di una
Nazione sono proprio le guerre civili, combattute molto spesso in ossequio
all’assurdo principio della superiorità della religione d’appartenenza. Basti,
a titolo d’esempio, guardare alla realtà politica che oggi sta vivendo la
Siria, dove vengono barbaramente uccisi cristiani, che in questo Paese rappresentano,
come si sa, una minoranza religiosa.
Il
principio della tolleranza, già espresso lucidamente da Voltaire, dovrebbe
quanto meno illuminare le coscienze e la sensibilità degli individui d’ogni
angolo del mondo, affinchè si possano garantire condizioni di equilibrio tra
gli uomini di tutte le nazioni. Ma la tolleranza presuppone un altro principio:
quello della libertà. La libertà individuale, la libertà di essere. E già lo
stesso Voltaire nel Trattato sulla
tolleranza scriveva: «L’interesse generale dell’umanità, questo primo
obiettivo di tutti i cuori virtuosi, richiede la libertà d’opinione, di
coscienza, di culto: in primo luogo perché questo è il solo modo per stabilire
tra gli uomini una vera fraternità; poiché, dato che è impossibile unirli nelle
medesime opinioni religiose, bisogna
insegnare loro a considerare, a trattare come propri fratelli, quelli che hanno
opinioni contrarie alle loro».
In
quest’ottica è possibile comprendere pienamente il valore di ogni singolo
popolo, il valore di ogni singola religione; il valore di ogni singola
identità. La bellezza di ogni singola cultura.
Ogni
popolo esprime se stesso attraverso le più diverse forme: dall’arte alla
letteratura, dalla filosofia alla religione; dalla lingua al costume.
L’identità di ogni singola civiltà è un valore che andrebbe preservato,
protetto e non distrutto, violato o misconosciuto. È un valore che andrebbe
tutelato nella sua unicità.
Ed
è proprio nell’arte che una civiltà, a mio avviso, esprime tutto il suo essere,
tutta la sua unicità, tutta la sua bellezza. Perché è proprio nell’arte che una
civiltà manifesta la sua concezione del mondo. E questo spiega la ragione per
cui, per esempio, l’arte giapponese è tanto diversa dall’arte occidentale, o
comunque europea. Ma anche nella stessa Europa possiamo per esempio percepire
questa diversità. Per esempio, l’arte tedesca è completamente differente
dall’arte italiana, anche se della stessa epoca, dello stesso periodo storico.
Un esempio fra tutti: l’arte fiamminga del XV secolo è completamente differente
rispetto all’arte toscana o veneta dello stesso secolo. Pittori come Jan van
Eyck o Hans Memling dipingono nello stesso periodo di Antonello da Messina o
Leonardo da Vinci. Ma tra gli uni e gli altri passa una differenza abissale,
dovuta prevalentemente al differente linguaggio artistico. Parlano lingue
differenti, e tale diversità si manifesta proprio nel diverso modo di rappresentare
il mondo, il sacro, lo spirito, l’uomo. La pittura fiamminga, analitica,
meticolosa e per taluni aspetti fredda nella sua staticità formale si
contrappone alla morbidezza, alla sensualità della pittura italiana. Che è
rispetto alla fiamminga più innovativa, più moderna, se consideriamo la rivoluzione
spaziale rappresentata dall’uso sapiente e sistematico della prospettiva che ritroviamo nelle opere
dei maestri italiani. Tuttavia, nessuno si sognerebbe di bruciare tutte le
opere fiamminghe del Quattrocento, solo perché ritenute meno moderne o
qualitativamente inferiori alle opere italiane. Sarebbe una vera follia.
Esattamente come follia fu quella che portò a bruciare i corpi di ebrei innocenti
durante gli anni del regime nazista, in una logica malata per cui si agiva nel rispetto
e in ossequio all’assurdo principio della superiorità della razza ariana rispetto
a quella semitica.
Tutto
questo, dal razzismo all’immigrazione, sarà oggetto di discussione in un
convegno che si terrà a Bari il prossimo 25 marzo
Lì
dove non arrivano le parole, molto spesso arrivano le immagini. E l’arte da
sempre ha avuto questo compito: far parlare l’anima degli uomini.
Pensare
di affiancare un’esposizione di quadri a un convegno sul tema del razzismo, per
esempio, è un ottimo modo per comprendere meglio il valore delle etnie, il
valore di ogni singola cultura. Ed è quello che si tenterà di fare proprio in
occasione di questo incontro. La mostra di pittura affiancata al convegno
barese, intitolato Razzismo e immigrazione: problematiche e dimensioni (Bari, Sala
Consiliare del Comune) presenta, infatti, lavori di artisti provenienti da
diverse parti del mondo, ognuno con un proprio linguaggio artistico, ognuno con
la propria concezione della bellezza, ognuno con il proprio modo di raccontare i
colori della propria terra, l’unicità della propria cultura.
Nella
mostra barese si confrontano diverse realtà, diversi linguaggi artistici,
diverse declinazione del tema del razzismo. La solitudine di uomini fragili,
gettati in un mondo ostile e pieno di pericoli è magistralmente espressa, per
esempio, da un quadro come quello realizzato da Michele Condrò, dove un’esile
figura umana in primo piano è avvolta in un leggero mantello, come a
proteggersi dalla calura africana e dal disprezzo degli uomini, custodendo in
sé la propria intimità e la propria dignità.
Una
profonda umanità emerge in un altro quadro di Condrò: quello dove una donna
guarda davanti a sé il nulla di un’esistenza povera ma allo stesso tempo ricca
di spirito e di umanità, mentre il suo bimbo
magrissimo afferra il suo seno per berne il latte. Per berne l’essenza, la
vita.
Nelle
tele di Aldina H Beganovic Todorovic, invece, assistiamo al trionfo e alla
esplosione di colori vivacissimi, segno evidente della energia che sprigiona
dall’anima e dalla personalità della pittrice, amante della vita come della sua
stessa terra.
I
paesi e le campagne dipinti di Rosa Sivilla rimandano, inoltre, a una
dimensione intimistica, dove la nostalgia del paese d’origine sta a
testimoniare l’importanza che in ognuno di noi acquista la propria origine.
Luoghi, colori, luci, suoni, sapori, si mescolano nei lavori di questa
pittrice, dando vita a una sinfonia mirabile che parla la lingua del nostro
cuore.
Infine,
il mio quadro, che vuole essere la metafora di una esistenza tesa verso nuovi
orizzonti, nuovi mondi, nuove possibilità d’essere. Un solo ombrellone in una
spiaggia distesa davanti a un mare calmo, tranquillo, mite. Dove il tempo sembra
sospeso, surreale, e dove la realtà diventa sogno.
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